GRAN TOUR DELLE ALPI 2015

 

 dal Colle di Cadibona al passo del Brennero

 

 

 

 

“Vagabondi che frequentano la montagna

per il solo gusto di camminare, di toccare,

scrutare, vedere, stupirsi.”

 (Mauro Corona)



 

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Alpi Liguri

 

9 luglio, giovedì

La vacanza inizia col botto, nel senso etimologico della parola. Infatti, entrando dalla porta del telepass dell’autostrada dei Fiori, uno “scranch” ci allarma. Ahinoi lo sportello delle bombole del gas, chiuso male, tocca il guard rail e si scardina leggermente. Nell’impossibilità di farlo riparare subito dal concessionario più vicino, cioè quello di Vigevano che, sentito telefonicamente, ci nega l’assistenza, rimediamo incerottandolo col nastro adesivo e ripartiamo.

Sviste che capitano, quando la partenza è frettolosa!

Lasciamo l’autostrada ad Alessandria sud, oltrepassiamo Acqui Terme, la città bollente, che ci ha suggestionato con la sua fontana fumante, alcuni inverni fa e ci inoltriamo nelle dolci colline del Monferrato.

Per un tratto seguiamo a ritroso la valle del fiume Bormida, dalle acque verdi e pastose, poi ci indirizziamo verso il Colle di Cadibona, dove inizia ufficialmente la nostra vacanza alpina. Un lungo tunnel collega Cairo Montenotte a Cadibona. La vecchia strada che porta al colle è presidiata dalla casa cantoniera. Si prende a destra della galleria. Ne percorriamo un breve tratto, poi invertiamo la marcia e scendiamo direttamente a Savona, perché le strade dell’entroterra ligure sono piuttosto strette e non ci fidiamo a percorrerle col camper.

Mare e sole ci accompagnano lungo la statale Aurelia. Ecco Bergeggi col suo bell’isolotto, l’antica Noli, che ha conservato negli anni la sua elegante signorilità e ci ricorda le numerose e giocose vacanze, la variopinta Varigotti, con la sua architettura saracena e Finale Ligure, da cui parte la strada per il Colle del Melogno. Le Alpi Liguri ci attendono.Dopo pochecentinaia di metri siamo soli tra cielo e mare. Respiriamo gli aromi della vegetazione mediterranea. Superiamo il colle e ci introduciamo in una regione climaticamente differente. La vallata che discendiamo è chiusa da una serie di quinte montuose in un susseguirsi di tonalità cromatiche che si stemperano dal verde brillante al nero. Faggete e castagneti ombreggiano il percorso, rischiarato qua e là dai bianchi tronchi delle betulle.

A Garessio, nella piazza dominata da un imponente duomo, troviamo un assembramento di ciclisti, reduci da una gara di mountain bike. Hanno il viso arrossato e segnato dalla fatica, ma sono allegri e festeggiano il loro successo personale brindando con la borraccia in mano. Altri ciclisti li incrociamo grondanti di sudore mentre stanno spingendo con fatica rapporti leggeri negli ultimi tornanti. Raggiunto il fondo valle, torniamo a salire per un po’ lungo l’alta valle del Tanaro, il più importante affluente di destra del Po. La zona oggi è poco popolata, ma narra la sua storica operosità con i suoi opifici chiusi e la ferrovia dismessa. La valle ci ricorda i paesaggi pirenaici. Le montagne che la racchiudono hanno crinali tondeggianti, resi aspri da rocce affioranti e ripide falesie, ottime palestre di roccia.

E’ ormai sera. Sostiamo a Ormea, scegliendo l’agriturismo Regina in alternativa all’area camper, perché abbiamo bisogno dell’elettricità per portare in temperatura il frigorifero. Ottima scelta! Con una modica spesa vi abbiniamo una squisita cena a base di formaggi locali.

 

10 luglio, venerdì

E’ solo il secondo giorno di vacanza e abbiamo già fatto nostro il suo ritmo.

La sveglia è libera e la colazione è consumata con calma. Partiamo e continuiamo a seguire in controcorrente il Tanaro verso il Col di Nava. La valle è davvero bella. Le sue pareti rocciose, toccate dai raggi del sole mattutino, mostrano la loro rugosità in un magico gioco di luci e ombre.

Un cartello ci avvisa che qui finisce il Piemonte e l’estesa provincia di Cuneo e che si entra in Liguria. Dopo un po’ di salita, arriviamo al valico del Col di Nava, pronti per iniziare la discesa verso Imperia. Peccato che i valichi finora scollinati non siano segnalati con il loro nome e l’altimetria. La discesa verso il mare è ripida. Dai finestrini aperti entra l’assordante frinire delle cicale che, nascoste tra gli ulivi argentati, vivono la loro stagione beandosi del suo rovente calore. Noi invece ci difendiamo dalla bolla africana chiudendo i finestrini e rinfrescandoci con l’aria condizionata.

A Ventimiglia usciamo dall’autostrada e, voltando le spalle al mare, ci inoltriamo nella valle del Roya per raggiungere il Colle di Tenda. Il fiume Roya è un nastro di smeraldo, che ha tagliato una gola profonda. Dalla strada, a sua volta scavata nella roccia, si vedono in basso le terrazze calcaree sulle quali un tempo scorreva l’acqua. Piccoli borghi di pietra grigia stanno aggrappati agli spuntoni rocciosi e continuano a vivere in un tempo passato.

Entriamo in Francia. La frontiera non esiste più da anni, ma non c’è neppure la gendarmerie a bloccare i clandestini. A Ventimiglia non sanno che si può entrare in Francia anche per altre vie?

Intanto il paesaggio cambia colore. Le alte pareti rocciose che serrano la gola la tingono di rosso porfirico. Facciamo una breve sosta a Breil sur Roya. Il paese ha vie strette lungo sulle quali si affacciano case cadenti, molte abbandonate. Solo la barocca chiesa parrocchiale parla del suo importante passato. Continuiamo a salire. Piccole centrali elettriche sorte tra il 1912 e il 1917 sfruttano l’acqua del fiume.

Arriviamo al Colle di Tenda, quindi al termine delle Alpi Liguri e all’inizio delle Alpi Marittime. Il colle si transita percorrendo una stretta e buia galleria a senso unico alternato. Ci accodiamo ad alcuni veicoli. Il tempo di attesa è di sedici minuti.

Tre chilometri di budello e siamo di nuovo in Italia. Otto tornanti ravvicinati ci portano rapidamente nel fondovalle piuttosto industrializzato. A Borgo San Dalmazzo ci indirizziamo verso Entraque. Sostiamo nell’area camper “C’era una volta”, poi in paese prenotiamo la visita del Centro Uomini e Lupi.

 

 


Alpi Marittime

 

11 luglio, sabato

Ci alziamo dopo un lungo sonno. A metà mattina una nutriente colazione ci fornisce l’energia adeguata per giungere all’ora della merenda. Infatti, ci attende una giornata particolare di tipo naturalistico-culturale. Dopo qualche faccenda domestica a mezzogiorno ci incamminiamo lungo la ciclopedonale in direzione Casermette, dove alle ore 13.00, inizierà la vista del Centro Uomini e Lupi. All’ora stabilita si presenta Matteo, una giovane guida del centro. Radunato il piccolo gruppo sotto l’ombra di un grande noce, ci parla dell’attività del Centro e dei cinque lupi presenti. Il Centro è sorto con l’obiettivo di salvare i lupi trovati feriti sulle strade e possibilmente di renderli capaci di continuare la vita in modo libero e autonomo, secondo un progetto europeo, che prevede la reintroduzione dei predatori lungo l’arco alpino, per tenere sotto controllo la crescita delle popolazioni degli erbivori, come i caprioli e i camosci.

Ora sono presenti un lupo maschio e una femmina alfa, cioè capo branco. Il maschio, Ormea proviene dall’Appennino abruzzese, la femmina Emilia proviene dalla Francia. Essendo Emilia un lupo italico, l’analogo centro francese l’ha data a quello italiano per non contaminare geneticamente le razze.

La coppia ora è sana e vive in un’area di sei ettari. E’ in grado di procreare, ma convivendo da poco tempo nello stesso territorio, i due lupi si stanno conoscendo.

In un’area più piccola ampia due ettari vivono tre esemplari giovani, che non hanno ancora raggiunto la maturazione sessuale. Due sono femmine Gina e Hope, il terzo è il maschio Alberto, che si distingue dalle femmine per la corporatura più robusta e il portamento più imperioso. L’idea iniziale era quella di tenere Gina e Alberto come coppia alfa subentrante tra qualche anno a Ormea ed Emilia. Purtroppo lo stato di salute di Hope, che si pensava risolvibile in poco tempo, ha avuto una complicazione. Il lupo, se sta più di venti giorni in un centro di recupero a contatto con gli uomini, non può più essere liberato, perché non riesce più a cacciare e a reinserirsi in un branco. Quale sarà il destino dei tre lupi? Non si sa. Forse sarà Aberto a scegliere la sua femmina alfa, o forse la lupa capo branco uscirà vincente dalla lotta tra le due femmine. C’è anche una terza ipotesi. Se al centro arrivasse un lupo maschio, si potrebbero separare le due femmine.

Matteo ci spiega come riconoscere il lupo italico e le sue abitudini. Esso ha il pelo marrone sul corpo, la coda nera sempre abbassata, parallela alle zampe posteriori. Lungo le zampe anteriori sono presenti delle striature verticali di colore nero. Il muso è circondato da una bavaglia, un insieme di peli bianchi sul collo che risalgono verso la mandibola.

I lupi sono animali carnivori le cui prede preferite sono i caprioli e i camosci. Nella riserva, per evitare l’intrusione di volpi e tassi, animali carnivori che potrebbero essere portatori sani di germi patogeni, la rete metallica di recinzione scende fino a una profondità di un metro e mezzo.

Il lupo è un animale opportunista, per questo pur avendo paura dell’uomo tende ad avvicinarsi ai casolari in cerca di cibo tra l’immondizia. Non va in letargo e non si costruisce una tana. Dorme all’aperto o in anfratti. Solo quando deve partorire i suoi quattro o cinque cuccioli, dopo una gestazione di un paio di mesi, cerca riparo. I cuccioli nascono ciechi e nei primi due mesi non lasciano la tana, poi diventano membri del branco e iniziano a socializzare.

Il lupo è un animale territoriale e marca il suo spazio deponendo in modo evidente le sue fatte sui massi o ai piedi degli alberi e sfregando i polpastrelli delle sue zampe anteriori per terra in modo da rilasciare un secreto ghiandolare ed emettendo ululati, la cui nota acustica è tipica del branco. L’ululato serve anche a radunare il branco per la caccia.

Siamo nel Parco Naturale delle Alpi Marittime che è un tutt’uno con il Parc National du Mercantour francese. In questi due parchi vivono con certezza tre branchi di lupi, di cui uno ha il territorio che dall’Italia si espande verso la Francia. Matteo racconta un episodio accaduto recentemente di notte. Un branco di lupi liberi giunti sulle falde della montagna, che chiude la valle oltre il torrente, ha emesso degli ululati, come segnale di possesso del territorio. Ormea ed Emilia hanno risposto con i loro ululati a segnalare la loro presenza. Dopo aver ricevuto così tante informazioni, giunge il momento dell’incontro con i lupi. Percorriamo in silenzio il tracciato compreso tra le due reti di protezione dell’area piccola. Poi saliamo una scala di legno e raggiungiamo la piattaforma di una torretta di avvistamento, che si allunga sopra il territorio boscoso dei tre giovani lupi. C’è un’aria fresca, che ci dona ristoro. Tutti ci affacciamo alla staccionata, ma dei lupi nessuna traccia.

Matteo ci scoraggia ulteriormente dicendoci che i momenti di massima vitalità sono le ore dell’alba e quelle dopo il tramonto, all’imbrunire. Ci chiediamo perché la visita è nelle ore più calde? Sostiamo tutti pieni di speranza e di curiosità e ci bisbigliamo a vicenda: “Tu vedi qualcosa?” Poi, da dietro un muretto, sbuca all’improvviso un lupo. “E’ Gina” dice Matteo. “E’ la più curiosa e corre sempre quando sente trambusto”. Infatti, nonostante il nostro silenzio, il suo olfatto finissimo le ha fatto percepire la nostra presenza. Gina si muove elegante sotto i nostri sguardi emozionati, poi si accuccia presso le radici di un albero e si addormenta. Se non si sapesse che lì c’è l’animale, non si noterebbe tanto il suo pelo si mimetizza col fogliame secco. Stiamo ad ammirarla ancora per un po’, poi Matteo ci fa tornare. Ripercorrendo a ritroso il corridoio vediamo sbucare Hope. Esce dal bosco, corre veloce attraverso uno spiazzo erboso e si nasconde di nuovo nel bosco.

Al termine della visita facciamo merenda e poi torniamo all’area camper percorrendo un’altra strada, quella che conduce a Entraque. Dopo un’ora di riposo ritorniamo in paese per partecipare alla santa messa, che è celebrata nella chiesa della Confraternita di Santa Croce. E’ una chiesetta barocca i cui fronzoli dorati e gli sgargianti dipinti non le danno lustro. Il sacerdote quando dopo la consacrazione prega per il Papa e il vescovo della diocesi, aggiunge una preghiera per i vescovi delle diocesi da cui provengono i turisti. Il pensiero è delicato e ci piace molto.

L’ultimo canto degli uccelli e la serenata dei grilli ci accompagnano fino a notte.

 

12 luglio, domenica

Sistemato il camper riguardo la riserva d’acqua, alle ore 9.30 partiamo. Ci attende un breve spostamento di soli quindici chilometri. Da Entraque scendiamo fino al bivio e prendiamo la direzione Valdieri. La nostra meta è il fondo valle a Terme di Valdieri. Nell’area camper del Centro Visite del Parco Naturale delle Alpi Marittime, posteggiamo all’ombra di un larice. Giornata di pausa. Paola ne approfitta per fare il bucato. Poi, mentre sta cucinando il ragù, si affaccia alla porta una signora, che le chiede gentilmente se ha una padella da prestarle. E’ arrivata in automobile per un pic-nic. Ha portato il fornelletto e le bistecche, ma ha dimenticato la padella. Senza esitare Paola gliene dà una. La signora ringrazia e promette di restituirla nel pomeriggio. Promessa mantenuta. La signora come ringraziamento ci regala due pomodori cuore di bue. Buoni! Li mangeremo ricordandola con un benevolo pensiero.

La lettura, l’enigmistica, la progettazione delle nuove tappe e le immagini della cronometro a squadre del Tour de France occupano le prime ore del pomeriggio. Il relax continua con una breve passeggiata fino alle terme e la visita al Centro Visitatori, dove acquistiamo un magnete raffigurante il lupo italico.

 

13 luglio, lunedì

Anche oggi è una splendida giornata di sole, propizia per una passeggiata. Partendo dall’area camper, ci incamminiamo lungo la carrareccia che conduce nel Vallone del Valasco. Dopo qualche centinaio di metri, lasciamo la carrareccia per la vecchia mulattiera, più ombrosa e breve, ma più ripida.

Essa segue il corso del torrente Gesso, ricco di acqua cristallina, che salta tra i massi e rosicchia i tronchi degli alberi caduti con le slavine e portati giù dalla forza del disgelo. A tratti il torrente si riposa distendendo la sua acqua in pozze smeraldine, dove vediamo guizzare fuori argentee trote, che rapide prendono al volo degli incauti insetti. Fa molto caldo. La mulattiera sale a gradoni.

I cespugli che la contornano non offrono generi di conforto. E’ passato il tempo dei lamponi e delle fragoline e non è ancora giunto quello delle more. Ci fanno compagnia i trilli e i cinguettii degli uccelli nascosti tra i rami degli abeti e le leggiadre farfalle dalle livree colorate e maculate, che ci danzano attorno per poi riposarsi per brevi attimi sui fiori e sui sassi. Qualche sosta è d’obbligo. Alcune sono dettate dalla necessità di fissare nel ricordo tanta bellezza, altre sono motivate dallo scarso allenamento. Ciò nonostante arriviamo alla meta impiegando solo mezz’ora in più rispetto a quanto indicato dalla segnaletica all’inizio del percorso.

La mulattiera, risalita la valle fluviale, si ricongiunge alla carrareccia, che sbuca su un ampio pianoro di origine glaciale, chiuso da un circo dove resistono ancora dei piccoli ghiacciai. Su questa grande zona prativa pascola una bianca mandria di bovini di razza piemontese. Alcune mucche sono affiancate dai loro vitelli, che trotterellano e iniziano ad assaggiare la gustosa erba di montagna, ma non disdegnano qualche poppata.

Siamo quasi arrivati al rifugio, quando vediamo in lontananza scendere lungo una pietraia, a grandi balzi, dei camosci. Vanno al torrente, bevono e poi risalgono veloci il versante montuoso.

Sul fondo della piana c’è il Rifugio Valasco, un tempo casa di caccia dei Savoia. Da qui partono i sentieri di passeggiate ben più lunghe e impegnative, che portano verso i laghetti d’alta quota, altri rifugi e cime. Noi ci fermiamo al rifugio e qui pranziamo: polenta taragna con il sugo di salsicce e formaggio fuso. Altre persone arrivano a pranzare: una famigliola tedesca, degli italiani e un gruppo di undici cavallerizzi francesi. Sono affaticati, ma allora cosa dovrebbero dire i loro cavalli?

Lentamente facciamo ritorno al camper. Per non stressare le articolazioni di caviglie e ginocchia, percorriamo interamente la carrareccia. Trascorriamo la seconda parte del pomeriggio riordinando le fotografie e scrivendo il diario della giornata. Alle ore 17.30 ecco i cavallerizzi passano per l’area camper, ci riconoscono e ci salutano.

 

 

14 luglio, martedì

Ci muoviamo intorno alle ore 8.00. La giornata deve iniziare con la riparazione dello sportello del camper. Il concessionario Lusso di S. Rocco di Bernezzo (Cuneo) ci attende alle ore 9.00. In meno di un’ora, compresa la pausa caffè, arriviamo a destinazione. Il tecnico visiona subito il danno e si meraviglia della sua pochezza. Si mette al lavoro sotto lo sguardo attento di Giuseppe.

Il cardine non è da sostituire, perché non è rotto, basta rimetterlo in asse, così pure la serratura, basta reinserire al suo posto il nottolino. Con un’ora di lavoro il mezzo è aggiustato. Con poca spesa, solo 25.00 €, massima resa. Siamo proprio contenti. Ci portiamo via anche mezzo chilo di prugne mature, che Paola ha raccolto dall’albero la cui fronda pendeva dentro il cortile dell’officina.

Ripartiamo. A Borgo San Dalmazzo riforniamo la cambusa, poi seguiamo le indicazioni per il Colle della Maddalena e quindi per il santuario di Sant’Anna di Vinadio.

La strada che conduce al luogo di culto è stretta e molto ripida. Si sale dagli 800 ai 2000 metri di altitudine. I tornanti stretti e ciechi ci fanno inerpicare verso l’alto. Giuseppe avverte del nostro arrivo suonando il clacson. Scelta oculata perché incrociamo diversi ciclisti in discesa. L’incontro con alcune automobili non è facile. Bisogna farlo coincidere con le piazzole. Se questo non avviene, l’automobile, che è più manovrabile, in retromarcia torna verso una piazzola. Occorre anche stare attenti perché il ciglio verso valle è senza protezione. Superata la zona del bosco, la strada prosegue intagliata su un versante brullo, roccioso, coperto da pietraie. Posteggiamo il camper all’ora di pranzo sul terrapieno adiacente al santuario. Esso è adibito al posteggio dei mezzi ricreazionali. Un cartello chiede di segnalare al centro di accoglienza la propria presenza e di lasciare, possibilmente, un’offerta. Il pomeriggio lo dedichiamo al riposo. Ci rechiamo al santuario a segnalare il nostro arrivo, visitiamo la chiesa e sostiamo in preghiera.

Le prime fonti storiche che documentano la presenza del santuario risalgono all’inizio del XIV secolo, ma già nei tre secoli precedenti, per volere della Chiesa, erano state edificate chiese-ospizio presso i valichi alpini, come assistenza ai viandanti. Il primo santuario era dedicato a santa Maria di Brasca, poi è stato dedicato a sant’Anna, perché secondo una leggenda la santa, che aveva accanto la Madonna giovinetta, apparve a una pastorella. Le fonti storiche affermano che all’inizio del 1500 al santuario si stabilirono con una presenza fissa un cappellano e un randiere, cioè un custode, che aveva il compito anche di guida alpina, di provvedere al cibo per i viandanti e di suonare la campana in caso di nebbia o di tormenta, per orientare che si trovasse lungo i sentieri della valle. In seguito la vicinanza con la Francia fece sì che il santuario affrontasse periodi bui e di distruzione. La rivoluzione francese, il periodo napoleonico, la soppressione degli enti ecclesiastici nel 1800 e la seconda guerra mondiale furono per questo luogo di culto i tempi più tragici. Oggi il santuario si presenta com’era stato risistemato nel 1681. La chiesa è molto particolare. Il pavimento di legno di noce è in pendenza, perché ricopre le rocce levigate di un’antica lingua glaciale. Le pareti sono completamente ricoperte da quadri e cuori ex voto in ricordo delle molte grazie ricevute per intercessione di sant’Anna. Intorno alla chiesa c’è il chiostro.

Ci sono poi strutture di accoglienza. Oggi sono vocianti, perché stanno ospitando diversi gruppi di ragazzi.

Siamo a un passo dal cielo. Mentre le nubi di calore ricoprono il fondo valle, noi qui in alto ammiriamo lo spettacolo della natura. Magri prati e rade pinete salgono in alto finché possono per poi lasciare posto alle nude rocce, che ospitano ancora esigui nevai, ciò che resta della passata riserva d’acqua dolce.

Mentre a oriente si allungano le ombre della sera, a occidente i versanti si vestono dei colori del tramonto, facendo risaltare ancora di più le loro creste affilate.

Dopo cena le marmotte fischiano la ritirata, i campanacci delle mucche si zittiscono, i ragazzi si ritirano nei rifugi. E’ ancora chiaro, ma quassù la notte è già iniziata.

 

 

15 luglio, mercoledì

Seconda gita della vacanza. E’ un po’ più lunga e più impegnativa della precedente, perché richiede di superare un dislivello di 400 metri. Una strada asfaltata con una pendenza del 18 % ci conduce in poche centinaia di metri al luogo dell’apparizione. Anche questa è una zona di preghiera. Davanti al Crocefisso leggiamo una profonda orazione di monsignor Comastri e sul masso dell’apparizione un’altra bellissima prece, che è un inno in difesa della vita, in particolare di quella dei bambini in tutte le loro condizioni. Alla fonte riempiamo la borraccia. Da qui iniziano i sentieri diretti verso diverse mete. Noi seguiamo quello che conduce ai laghi di sant’Anna e poi al passo Tesina. Saliamo lungo un ampio sentiero ghiaioso ed ecco, a 2150 metri di quota il primo lago. Occupa la conca che un tempo ospitava un piccolo ghiacciaio di circo. Le sue acque trasparenti lasciano vedere il fondo sassoso. In prossimità della riva, tra i massi sommersi, nuotano tranquilli dei girini. Il loro processo di metamorfosi è iniziato. Il loro corpo si è già ingrossato e si vede l’accenno della crescita degli arti. Un po’ di fotografie ci regalano una benefica sosta. Proseguiamo ed ecco il secondo lago. Ha la stessa origine del primo, ma è più grande. Vediamo che c’è una presa d’acqua. La famosa acqua di Vinadio è proprio attinta in alto.  Dopo altri tornanti ecco il terzo lago.

I nostri passi allertano le marmotte. I fortissimi fischi ci segnalano la loro presenza sul prato scosceso e tempestato di massi. Cerchiamo di individuarle, ma non le vediamo, però vicino a un gorgogliante ruscello, scorgiamo il foro tondo d’ingresso di una loro galleria. Ci viene da sorridere, perché ricordiamo un episodio di un paio d’anni fa. Facendo osservare al nostro nipotino, che aveva tre anni, l’ingresso di una tana, nella sua ingenuità infantile si chinò e portando le manine vicino alla bocca gridò: “Marmotta, esci!”

Un rumore ci distoglie dai ricordi. Su una parete verticale un rocciatore sta salendo. Sentiamo i colpi del suo martello che fissano i chiodi, lo osserviamo salire lentamente, ma con destrezza. Lo lasciamo quando ha raggiunto una cengia.

Ora il sentiero s’inerpica con maggiore decisione. Il sole è caldo, però la giornata ariosa rende piacevole l’ascesa. Camminiamo in silenzio e passo dopo passo gioiamo per tanta bellezza. I prati sono ravvivati dai colori sgargianti dei fiori. C’è il giallo vivo dei ranuncoli e di altre specie floreali. Il fucsia dei garofani di montagna e di alcuni cardi. Stupendo è l’aspetto solare delle margherite. C’è il delicato rosa dei pochi gigli Martagone rimasti. Minuscoli fiori bianchi e rossi occhieggiano ovunque. L’azzurro intenso delle campanule richiama quello del cielo.

Alcuni escursionisti ci superano, però chi va piano... li ritroviamo al passo Tesina già in ammirazione del vallone opposto. Anche noi abbiamo raggiunto quota 2400 metri. Sostiamo e assaporiamo la fresca aria del passo, poi per la stessa via torniamo.

Alle ore 13.00 nel cielo, a tratti velato, compare una striscia di arcobaleno: una nota di colore interrompe la monotonia della discesa.

Rientrati al camper, in un orario quasi spagnolo, pranziamo con una gustosa carbonara e della frutta.

Verso sera, nel santuario, partecipiamo al Vespero. All’imbrunire grigie nubi di calore salgono ancora dal fondo valle, mentre quelle alte nel cielo si tingono di rosa.

 

16 luglio, giovedì

Oggi il cielo non è completamente sereno come nei giorni scorsi, ma per noi è una splendida giornata, perché festeggiamo il 38° anniversario di matrimonio. Alle ore 10.00 partecipiamo alla santa messa nel santuario per ringraziare Dio di averci fatto incontrare, di aver benedetto la nostra unione nel vincolo sacramentale, di averci aiutato a far crescere il nostro amore, di averci donato dei figli, di aver messo accanto a loro due brave ragazze e di averci donato la gioia di essere nonni.

Nella tarda mattinata partiamo, lasciando il nostro posto a un piccolo camper di un’anziana coppia di Cuneo con la quale scambiamo qualche parola di conoscenza e di saluto.

Il trasferimento odierno non è molto lungo, ma è come quello che ci ha portato fin quassù, abbastanza impegnativo. Lasciamo il santuario e dopo una breve e, ripida discesa, deviamo a destra verso il Colle della Lombarda, punto di confine con la Francia. La stretta strada subito s’inerpica e con ripetuti tornanti ci porta nuovamente in alto. Siamo immersi in un lariceto, che rende poetico il paesaggio. L’incrocio con le automobili che scendono deve avvenire dove ci sono delle piazzuole. Cerchiamo di essere noi a sostare anche perché la carreggiata in salita è verso valle. Superata una certa altitudine, la strada sale più dolcemente e segue i dossi e i canaloni del versante montuoso. Un’ampia piazzola ci consente una breve sosta per fotografare il santuario nel suo complesso. Ora la montagna è brulla. Estese pietraie ricoprono i suoi fianchi. In una conca un piccolo lago offre l’occasione per un pic-nic ad alcuni gitanti. Una ciclista sta spingendo i pedali con grinta e impegno. Chissà quanti chilometri ha percorso come allenamento prima di cimentarsi in una simile salita!

Eccoci arrivati. Siamo a un’altezza di 2350 metri. Posteggiamo. Accanto al cartello, che indica il nome del colle, sono fermi tre ciclisti. Dopo poco tempo arriva anche la signora che abbiamo superato. I tre uomini prima scherzano un po’, poi si congratulano con lei. Sono quattro amici. Essi chiedono a Giuseppe se può ritrarli insieme. “Cheese” e la foto è scattata. Ringraziano. Indossano le mantelline antivento, si danno appuntamento al santuario e si lanciano in discesa.

Noi restiamo ancora ad ammirare il panorama davvero incantevole. Davanti a tanta bellezza pranziamo con gnocchi al burro e salvia e frutta.

Qualcosa d’inconsueto interrompe la quiete del posto. Vicino a un muretto inizia a salire del fumo. Sembra un barbeque, ma non lo è. Il fumo diventa più denso e nero e subito dopo fiamme gialle e rosse si alzano verso il cielo. Passa poco tempo e arriva un’automobile dei pompieri. L’estintore però non basta. Allora giunge anche una piccola autopompa e finalmente il fuoco è domato. Riprendiamo la marcia. La strada del versante francese è più ampia, ma anche da questa parte la pendenza è notevole. Transitiamo attraverso la stazione sciistica di Isola 2000 e arriviamo a St. Etienne de Tinée. In questo paese c’è un’area camper e un campeggio, ma in entrambi i siti non c’è possibilità di sosta. L’area camper ha solo sei stalli che sono già occupati, il campeggio è solo per le tende. Ci riprogrammiamo. Ad Auron, paese distante solo undici chilometri, c’è il campeggio Le Cubersel, sarà la nostra nuova destinazione. Auron è una stazione sciistica a 1600 metri di altitudine. Il suo campeggio è un villaggio di case mobili, però sul piccolo prato che lo chiude, accanto a un altro camper ci sta il nostro. Il paese è un insieme di residence e alberghi, quasi tutti chiusi, così come molti negozi. Fervono i lavori di ristrutturazione, costruzione e abbellimento delle infrastrutture in preparazione della stagione invernale. In un piccolo supermercato, compriamo un dolcetto per terminare la cena in modo festoso.

Trascorriamo il restante pomeriggio, sprofondati nelle nostre poltroncine all’ombra di un alberello. Di fronte a noi c’è un amareno carico di rossi frutti. Una signora sta raccogliendo quelle bontà. Prima di tornare alla sua casa mobile, passando ce ne offre due manciate. Regalo gradito e molto gustoso. Grazie!

 

17 luglio, venerdì

Il tour delle Alpi continua. Ci addentriamo nel Parco Nazionale del Mercantour, che inizia come contraltare delle Alpi Marittime italiane e si estende enormemente verso nord est. Da Auron torniamo a St. Etienne e da qui seguendo la valle della Tinée saliamo verso la Cime de la Bonette. Questa strada pensata da Napoleone III nel 1860, diventò una carrozzabile dieci anni più tardi. Nel periodo della II guerra mondiale divenne una strada militare.

Il generale Maginot fece costruire delle fortificazioni e delle casematte.

Nel 1959 è stata dichiarata itinerario turistico delle Alpi Marittime (francesi). Nel biennio 1960-61 per raggiungere il primato di strada più alta d’Europa, allora detenuto dalla strada dello Stelvio, è stato costruito l’anello che porta alla Cima Bonette a 2802 metri di altitudine.

Inizialmente la valle si presenta come un tipico bacino  fluviale alpino. La strada segue le anse del fiume. Ripidi affluenti con balzi e cascate s’immettono in esso arricchendolo di acqua. Più in alto il territorio si apre. I versanti montuosi hanno gli ultimi boschi di conifere un po’ sofferenti. I larici hanno un colore bruciato, segno dell’incapacità di attuare la fotosintesi clorofilliana. Tra essi spicca il verde cupo degli abeti. Evidentemente essi sono immuni dalla patologia dei larici. Sopra i 2000 metri, le montagne sono completamente brulle. Nude e lisce rocce ed estesi ghiaioni un tempo assai lontano erano coperti di ghiaccio. Oggi si stanno lentamente rivestendo di vegetazione erbacea. Qua e là spiccano delle macchie verdi, che si protendono filiformi verso l’alto sui declivi più esposti al sole e meno battuti dal vento. La strada è ripida, ha una pendenza costante dell’otto e mezzo per cento. Saliamo lentamente per gustare il panorama. L’incrocio con i mezzi in discesa non è difficoltoso, perché numerosi sono gli allargamenti e le piazzuole. A tratti ci soffermiamo in questi spazi per lasciare passare le automobili e i motociclisti che si sono accodati dietro il nostro mezzo. Molti ci ringraziano per la gentilezza. Gli automobilisti salutano con la mano o lampeggiano per qualche secondo le quattro luci di stazionamento. I motociclisti, per non staccare le mani dal manubrio, mettono un po’ in fuori il piede destro.

Le soste fotografiche sono molte. A 2300 metri troviamo un villaggio abbandonato. Poi arriviamo al Passo di Bonette e da qui alla Cima a 2802 metri. Fotografiamo la stele e rivolgiamo uno sguardo di ammirazione ai numerosi ciclisti che hanno faticato e sudato per ventidue chilometri. Robuste gambe, cuore resistente, grande fortezza mentale, sono senz’altro le doti che posseggono.

Paola volge lo sguardo al cielo e vede volteggiare una due, tre, quattro aquile. Il tempo di cambiare l’obiettivo è troppo lungo per poterle cogliere insieme. Si sono alzate di molti metri e giocano a nascondino entrando e uscendo da una nube un po’ bianca e un po’ grigiastra. Con pazienza Giuseppe attende il momento propizio. La sua speranza è premiata.

Ripartiamo e iniziamo la discesa dall’altra parte del passo. Dopo poche centinaia di metri ci fermiamo su uno spiazzo terroso vicino a ciò che fu una fortificazione militare. Manca ancora mezz’ora a mezzogiorno, ma il luogo è troppo bello, per essere subito lasciato. Aspettiamo qui l’ora del pranzo. Alcuni cartelloni informano i turisti. Uno spiega la storia di questa strada. Un altro illustra le diverse specie animali qui presenti: la lepre alpina, alcuni uccelli, l’ermellino e come super predatore l’aquila. C’è una completa catena alimentare.

La discesa è ancora più ripida della salita. In alcuni tratti raggiunge il dieci per cento di pendenza. Il freno motore è un ottimo alleato alla guida.

Man mano che ci abbassiamo iniziamo a sentire il caldo. A Jausier seguiamo l’indicazione Colle della Maddalena. Sappiamo che dopo pochi chilometri dobbiamo deviare verso il Col de Vars. Purtroppo non cogliamo la deviazione e... forse distrattamente non abbiamo neppure ascoltato l’indicazione vocale del navigatore. Ci rendiamo conto di aver sbagliato strada quando, guardando il navigatore, constatiamo che i chilometri invece di diminuire aumentano. Opportunamente invertiamo la marcia. Torniamo verso Jausier; alle porte del paese troviamo l’indicazione per la nostra giusta direzione.

La strada ci fa salire fino a 2111 metri. Sul Col de Vars c’è un rifugio fatto costruire da Napoleone III nel 1850. Valichiamo il passo e scendiamo. A Guillestre, che è un centro abitato piuttosto grande, troviamo un supermercato. Facciamo spesa e il pieno di gasolio al favoloso prezzo di 1,21 €/l.

Ultima ripresa. Entriamo nel Parco Naturale Regionale di Queyras e ci rechiamo verso Ristolas, dove intendiamo fermarci. La strada segue il corso del torrente Guil, che ha intagliato fortemente le rocce tra cui scorre in modo impetuoso. Canoe e gommoni di rafting lo discendono. Tra gli spruzzi bianchi le pagaie si muovono correttamente per tenere in assetto i natanti. Alte pareti ci sovrastano. La strada è stretta. Per superare alcuni angoli ancora più angusti è a senso unico alternato, regolato da un semaforo che segnala anche il tempo di attesa. Penetriamo anche dentro alcune gallerie a doppio senso di marcia, nella speranza di non incrociare veicoli provenienti dall’opposta direzione. Infatti, gli spuntoni rocciosi delle loro pareti sono un invito a stare spostati verso il centro. Siamo davvero fortunati, infatti, dove la strada è più larga, incrociamo un camion e addirittura un trasporto eccezionale.

A Chateu-Queyras il paesaggio cambia. L’antico castello, che veglia dall’alto sul piccolo borgo, sorge su uno sperone di roccia, che è rimasto solido e non intaccato dall’enorme processo di erosione del ghiacciaio, che milioni di anni fa si estendeva nella valle. Superata questa soglia, si entra in una valle glaciale dal suo caratteristico profilo a U. Ora la strada sale dolcemente. Proseguiamo fino alla frazione La Monta e troviamo posto nel Camping Municipal, che ha il nome della frazione. Come la maggior parte dei campeggi francesi è spartano. E’ situato su un pianoro erboso disseminato di larici, lungo la sponda destra del fiume Guil. Ha solo i servizi essenziali, ma non manca di accoglienza. Il gestore domani mattina ci farà trovare il pane e due croissant.

Per Giuseppe è stata una giornata impegnativa: 150 chilometri di salite e discese, ma anche 150 chilometri di panorami incantevoli.

 


Alpi Cozie

 

 

18 luglio, sabato

Questa mattina il cielo è nuvoloso. Un po’ ci dispiace, perché abbiamo programmato la terza gita. Dopo la sostanziosa colazione ci avviamo. Abbiamo lasciato le Alpi Marittime, che terminano al Colle della Maddalena, e siamo entrati nel settore delle Alpi Cozie. Iniziamo la loro conoscenza dal versante francese. Oggi andiamo al Gran Belvedere, che sta alle propaggini del Monviso. Iniziamo il cammino andando alla chiesetta della frazione per prendere visione degli orari delle messe. La chiesa è chiusa, sembra abbandonata e non ha fuori nessun avviso. Riprendiamo il cammino sulla strada provinciale ed ecco che si ferma il bus navetta, che dal fondovalle porta gli escursionisti al posteggio da cui partono i tracciati delle gite. Scendono due turisti. Chiediamo all’autista se possiamo salire. Acconsente e non ci fa pagare neppure il biglietto. Risparmiamo due chilometri su strada asfaltata.

Giunti al capolinea, iniziamo il nostro cammino. Il tracciato è una carrareccia in parte asfaltata, percorribile dalle automobili fino a un parcheggio posto più avanti. Questo tratto è semi pianeggiante. Segue il corso del Guil che, nascendo dal Monviso, è il Po francese ma lui, al contrario del nostro “grande fiume”, ricopre il ruolo di affluente. Ciò nonostante ha una ricchezza d’acqua apprezzabile. Un pescatore pazientemente attende al varco le trote, proponendo loro appetitose mosche. 

In una bacheca all’inizio della salita leggiamo alcune informazioni riguardanti la Riserva Naturale del Monviso. Il massiccio montuoso è nato dall’emersione delle rocce dell’antico oceano Mediterraneo, il Tetide, che si è ridotto a causa dello scontro tra la placca africana e quella euroasiatica. Il Monviso è formato da rocce metamorfiche scistose, cioè lamellari, formatisi attraverso lo sprofondamento delle rocce magmatiche oceaniche fino a una profondità di ottanta chilometri. Qui a causa delle forti pressioni e del calore terrestre i minerali hanno subito delle trasformazioni chimiche. Queste nuove rocce, chiamate metamorfiche, proprio per la grande trasformazione subita, sono in seguito emerse.

La riserva ha una notevole ricchezza di biodiversità. Sono presenti 765 specie vegetali, tra alberi, arbusti e fiori e 164 specie di vertebrati.

Il vertebrato che caratterizza la riserva è il muflone di montagna.

Ci mettiamo nuovamente in cammino, ma ci fermiamo subito. Paola vede due piccole marmotte che si rincorrono sul prato. L’occhio tecnico di Giuseppe non si lascia sfuggire l’osservazione. Giuseppe ha solo un rammarico. Oggi ha portato il grand’angolo per fotografare il panorama e non ha al seguito il teleobiettivo. Non ci sono solo gli animali selvatici, una mandria di mucche bruno-alpine con alcuni vitelli sta brucando tranquilla sul prato.

Iniziamo la salita. La strada è sempre una carrareccia, che alterna ertosi tornanti a tratti di falso piano ad altri strappi. La valle si avvicina alla base della montagna con gradoni generati dai diversi tempi delle glaciazioni, alterna quindi forre fluviali, corrispondenti alle ripide salite, a pianori.

Se più di cento sono le specie dei vertebrati, quante saranno quelle degli invertebrati? Dai prati gialli per la maturazione delle erbe cerealicole si alza un rumore continuo e assordante nel quale si distinguono vari ronzii e il cri-cri delle cavallette e dei grilli. Sulla strada laboriose formiche di diverse specie sono indaffarate nella raccolta di semi e pagliuzze. Le farfalle a gruppi volano felici nei loro connubi nuziali. Fastidiosi tafani ci insidiano.

I fiori alpini sono uno spettacolo di forme e colori. Con l’immaginazione cerchiamo di vedere come un mese fa potevano apparire i prati con i gigli in fiore.

La giornata nuvolosa volge al bello. Il cielo si schiarisce, le nubi si aprono e le montagne spiccano con le loro asperità. Dopo un tornante vediamo là in fondo il Monviso, ma non siamo ancora al Gran Belvedere.

Il caldo inizia a farsi sentire. Raccogliamo dell’acqua da un ruscello che scende lungo un ripido versante verso il Guil. La sua freschezza è davvero dissetante.

Raggiungiamo e superiamo una coppia di nonni con il nipotino che avrà l’età del nostro. Il piccolo cammina spedito e gioca spostando ai lati della carrareccia i rametti e i sassi che a suo parere possono essere d’intralcio. Ora qualche ruscello attraversa la strada e versa un po’ della sua acqua nel Guil sottostante e ne fa scorrere un altro po’ sulla strada formando delle pozzanghere piccole e grandi. Dopo qualche passo sentiamo la nonna alle nostre spalle dire: “Jelles!” Ci voltiamo. Il piccolo è entrato in una pozzanghera più profonda di altre e probabilmente si è bagnato i piedi. I bambini di qualsiasi paese sono, fanno i giochi dei bambini!

Un’ultima salita di due ripidi tornanti porta al Gran Belvedere.

Il Monviso mostra il suo bel viso libero da nubi. Un piccolo ghiacciaio e alcuni nevai stanno sotto le ripide pareti che raggiungono la vetta. Da qui con un sentiero si può salire e raggiungere il rifugio Monviso e poi con una traversata arrivare sul versante italiano. Noi ci fermiamo al Gran Belvedere. Siamo saliti di 500 metri, abbiamo già percorso sei chilometri e otto ci attendono nel ritorno.

Dopo una breve pausa torniamo indietro.

A L’Achalp, dove il bus aveva fatto capolinea, c’è una chiesetta circondata da quattro case. Anche questa è chiusa e non ha avvisi. Un piccolo cimitero e un vecchio tino, che oggi funge da fontana, raccontano di vite passate.

Arriviamo al camper alle ore 15.30. Facciamo il pranzo-merenda con pane e salame. Intanto il cielo si scurisce, lontani brontolii annunciano un imminente temporale. Esso puntualmente arriva.

La gita è stata bella e piacevole, ma ha lasciato nelle nostre gambe una certa stanchezza, perché ha messo a dura prova la nostra resistenza alla fatica prolungata.

Alle ore 18.00 passa in bicicletta uno strano personaggio. Urla qualcosa che non capiamo. E’ vestito da pagliaccio. Arriva dal circo presente a qualche centinaio di metri dal campeggio. Pensiamo che stia invitando allo spettacolo.

Il piccolo circo aveva in programma due giorni di stazionamento. Povera gente! Proprio nel pomeriggio, che poteva dare loro tanto pubblico, diluvia.

 

19 luglio, domenica

Purtroppo né nella frazione dove soggiorniamo, né in quelle vicine è celebrata la messa. Santifichiamo il giorno del Signore seguendo la liturgia delle ore. Prima di colazione recitiamo Lodi, prima di cena pregheremo i Vespri e prima di dormire, come ogni giorno la Compieta.

La notte l’abbiamo trascorsa con un sonno profondo e riposante, che ha tolto dalle nostre articolazioni ogni indolenzimento. Comunque oggi è una giornata di lavori domestici e di riposo.

Il temporale di ieri, che è durato fino a sera inoltrata, ha valicato le Alpi. Questa mattina il cielo è limpido e il sole già scalda la terra ancora umida.

Nella tarda mattinata una famiglia belga: padre, madre e un ragazzo adolescente, si ferma con l’automobile sul vialetto di fronte a noi. Il padre apre il bagagliaio ed estrae un piccone, una vanga e un secchio. Con il piccone inizia a smuovere il terreno sassoso, poi con la vanga completa il buco. Chiede a Paola dove può trovare l’acqua. Paola gli indica il capanno dei servizi, un po’ nascosto dietro quattro larici. Ringrazia e manda il figlio a riempire il secchio. Intanto prende dal bagagliaio un piccolo larice, lo pone nella buca, gli mette intorno della terra buona che ha portato con sé. Innaffia la terra, ricopre il larice con del fieno e circonda l’annidamento con delle pietre, così che questa piccola pianta non sia calpestata. Ripete l’operazione per quattro volte, lasciando tra una piantatura e l’altra lo spazio necessario alla crescita.

Mentre il padre e il figlio lavorano la terra, la madre documenta l’attività fotografandoli. Poi i tre ci salutano e partono.

E’ giunta l’ora del pranzo. Ciò che lo rende particolare è la gustosa grigliata che Giuseppe prepara con due hamburger e una fetta di toma.

Il pomeriggio è di completo riposo.

Questo campeggio lasciato allo stato naturale ci ricorda i campeggi estivi oratoriani. La nostra serenità e pace interiore trovano conferma nelle parole di Papa Francesco, che leggiamo nell’enciclica Laudato sii: “...suolo, acqua e montagne, tutto è carezza di Dio... Ognuno di noi conserva nella memoria luoghi il cui ricordo gli fa tanto bene.”

 

 

20 luglio, lunedì

Anche la giornata odierna si presenta con il cielo limpido. Splende già un caldo sole, che fa subito dimenticare la fredda notte: 8° C fuori, 13° C sul camper. Però sotto il caldo piumone noi non abbiamo sofferto.

La tappa odierna prevede il superamento di tre alture: il Col d’Izoard, il Col de Montgenèvre e Sestriere. Partiamo e quasi subito sostiamo per scattare delle fotografie. Ad Abriens perché dal paese sale un Calvario, che culmina con una chiesetta dal campanile aguzzo, poi a Chateu-Queyras per fotografare il castello da un’altra prospettiva. Superato questo paese, dopo un paio di chilometri, svoltiamo a destra e iniziamo la salita del Col d’Izoard. La strada è ripida, ma sufficientemente larga per non creare preoccupazioni riguardo agli incroci. Alle ore 10.00 arriviamo a un tornante che ha l’area pic-nic. E’ un’ottima occasione per la pausa caffè e per fotografare il panorama. Si vede che siamo in un diverso settore alpino. Mentre le Alpi Marittime erano molto brulle, le Alpi Cozie, dove non hanno pareti rocciose, sono piuttosto boscose. Di nuovo in marcia. Superiamo alcuni ciclisti che con impegno stanno salendo. Da lontano vediamo delle guglie rocciose innalzarsi da una montagna insolitamente brulla. Percorriamo pochi chilometri ed eccoci dentro quello splendido paesaggio. Un cartello indica il nome del luogo: Casse Deserte.

La sosta è d’obbligo. Davanti a questa meraviglia inizialmente non si può far altro che sgranare gli occhi e far scorrere lo sguardo da destra a sinistra, in alto e in basso per imprimere nella memoria un vivo ricordo. Poi ci attiviamo per comunicare il nostro stupore. Così Giuseppe inizia a fotografare pinnacoli e rocce, ghiaioni e massi, le montagne e la valle.

Ripartiamo e poco dopo siamo a 2361 metri sul Col d’Izoard. Altra sosta. Chi ci guadagna è Niccolò. Al negozietto di souvenir compriamo uno zainetto di peluche a forma di marmotta, animaletto dal muso simpatico, che lui ha visto lo scorso anno in Dolomiti.

La discesa verso Briançon è meno bella dal punto di vista paesaggistico, ma più impegnativa per la guida, perché la strada ha un maggior numero di tornanti. Alle ore 11.30 posteggiamo il mezzo nell’area camper di Briançon, situata in prossimità del centro sportivo. Ci sono già diversi camper, alcuni italiani. Uno lo abbiamo già visto. Sulla sua fiancata ha la scritta “orme sul mondo.com”. Lo avevamo visto a Diano Marina. Il mondo è davvero piccolo! Briançon è sorta come fortezza a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo. Ai piedi della cittadella si è sviluppata la città moderna. Con una camminata di un paio di chilometri raggiungiamo la cittadella. Sorge su uno sperone di roccia, che da un lato è a picco sulla Durance, il fiume che bagna la città. La cittadella è circondata da una doppia cinta muraria. Entriamo dalla Porte d’Embrun e ci addentriamo nel dedalo di viuzze, racchiuse tra le alte case dai colori provenzali. La sua via principale Grand Rue, piuttosto ripida è solcata in mezzo da un ruscello canalizzato a cielo aperto ed è contornata ai lati da tanti negozietti e bistrot. Vediamo la casa in cui risiedette il Papa Pio VI. Visitiamo la chiesa di Notre Dame. Ha una severa architettura, dalla sua facciata s’innalzano due campanili a cupola. In un bistrot pranziamo con un’omelette jambon e fromage.

Tornati al posteggio, vediamo che il camper “orme sul mondo” è aperto. Ci affacciamo e conosciamo Amelie e Pier. Sono due coniugi italiani che hanno deciso di vendere la casa di proprietà e di vivere in camper, girando il mondo. Diamo loro il nostro biglietto da visita con l’indirizzo del nostro sito e ci congediamo augurandoci a vicenda una buona continuazione dei nostri reciproci viaggi.

Usciamo da Briançon prendendo la strada per il Col de Montgenèvre. Ecco la frontiera con l’Italia. La gendarmerie la sta presidiando in entrata verso la Francia. Il problema dell’immigrazione clandestina è ancora molto attuale.

Dal Col de Montgenèvre al Setriere non c’è molta strada eppure il panorama cambia assai. E’ la vegetazione che lo caratterizza. I versanti montuosi sono molto più verdi e ricchi di boschi e i limiti di altitudine delle specie arboree sono più elevati. A Sestriere, il comune più alto d’Italia non ci fermiamo, perché a nostro parere è una nota stonata nel cuore delle Alpi. Grandi alberghi, moderni residence e condomini impongono la loro mole quasi a voler prevaricare la semplice bellezza della natura.

Scendendo lungo la valle del Chisone ci fermiamo nel campeggio Magic Forest di Usseaux, su un ampio prato circondato da pini e betulle, nello spazio destinato ai turisti di passaggio. Seduti all’aperto, all’ombra, ripercorriamo a voce i centoventi chilometri percorsi oggi.

 

21 luglio, martedì

Oggi abbandoniamo l’itinerario paesaggistico-naturalistico per un percorso più personale di tipo storico-culturale. Giuseppe desidera vedere i luoghi dove suo papà Enrico ha fatto il militare. Ha pochi ricordi, perché suo papà, terminata la traumatica avventura della guerra, non ha voluto incutere ansie e paure al suo bambino.

Riprendiamo a seguire il corso del Chisone, che scende verso la pianura. La valle è ricca di boschi. I pendii più dolci che salgono dalle sponde sono sfruttati come erbai. E’ il tempo della fienagione. I contadini sono all’opera. Lavorano ancora manualmente. Con i forconi rivoltano il fieno che si è inumidito durante la notte. Ai margini degli erbai, tra i boschetti arbustivi, sono celate numerose arnie. Arriviamo a Pinerolo, una delle cittadine tanto citate da papà Enrico. Non ci fermiamo, perché a essa abbiamo dedicato un week end undici anni fa. Era la nostra prima uscita col camper. Di questo breve viaggio c’è traccia sul nostro sito alla voce “città”.

Da Pinerolo seguiamo le indicazioni per Saluzzo. La zona pianeggiante, cintura di Torino, è costellata da piccole fabbriche, indotto della grande industria automobilistica del capoluogo. Transitiamo per Villar Perosa e Giuseppe, tifoso milanista, non può astenersi da un commento tra il faceto e il sarcastico. Lasciamo la provincia di Torino ed entriamo in quella di Cuneo. E’ una zona molto agricola. Vigneti e frutteti occupano vaste estensioni intorno alle fattorie dall’aspetto curato. Nella tarda mattinata sostiamo all’abbazia di Staffarda. L’abbiamo notata per caso consultando l’atlante stradale. Ha destato la nostra curiosità. Ecco il motivo della nostra visita.

L’abbazia è stata fondata circa novecento anni fa dai monaci cistercensi provenienti da Tiglieto in Liguria. Allora, quando le comunità monastiche diventavano troppo numerose, un gruppo di monaci partiva per fondare una nuova comunità. Sceglievano luoghi inaccessibili boscosi o paludosi, da bonificare e rendere produttivi mediante la coltivazione. Il marchese di Saluzzo regalò ai monaci il primo appezzamento di terreno. Essi costruirono, come primo edificio, la chiesa. L’abbazia in seguito s’ingrandì grazie alla donazione di altre terre da parte di alcuni feudatari della zona. Con l’ampliamento dei terreni agricoli la comunità monastica ebbe bisogno di mano d’opera. I servi della gleba, che andavano a lavorare per i monaci, si affrancavano dallo stato di schiavitù, perché i monaci li trattavano da uomini liberi. Oggi l’abbazia è sotto la cura dell’Ordine Mauriziano, uno dei più antichi ordini cavallereschi della dinastia sabauda. Esso è nato nel 1572 dalla fusione di due ordini preesistenti, uno di tipo militare e uno più spirituale. L’Ordine Mauriziano in quell’epoca si occupava dell’assistenza ai lebbrosi e della difesa dalla pirateria che infestava il Mediterraneo. Ancora oggi l’Ordine si occupa di assistenza sanitaria e della salva guardia dei monumenti storici e delle opere d’arte, che riceve come donazione.

L’abbazia si può apprezzare in ogni dettaglio, perché l’audioguida compresa nel costo del biglietto d’ingresso (gli insegnanti pagano il biglietto ridotto), illustra con chiarezza e senza pedanteria le diverse parti che la compongono.

Il deambulatorio si distingue in due parti. Una ha eleganti colonnine, era esclusivo per i monaci capitolari e l’altra era accessibile anche ai conversi.

I monaci capitolari vivevano in clausura ed erano ordinati sacerdoti. I monaci conversi non erano ordinati. All’interno della comunità svolgevano compiti di servizio e, potendo uscire dal convento, erano in contatto con la comunità esterna. Il chiostro è un giardino. Una volta i monaci vi coltivavano le erbe officinali. Il chiostro è circondato da una vasca ottagonale di pietra. Era l’unica acqua a disposizione dei monaci. Sul lato meno nobile del chiostro si trova la porta d’accesso al refettorio. Entriamo. E’ un grande e scuro salone rettangolare. Qui i monaci mangiavano in silenzio assoluto, seduti lungo semplici tavolate di legno, mentre ascoltavano la lettura delle regole o di testi sacri, declamati dal pulpito. Il pulpito non c’è più, perché questo locale è stato distrutto dai francesi durante le guerre napoleoniche. Il refettorio non era riscaldato, prendeva il calore dall’attigua cucina. Il cibo era povero. I monaci non potevano bere vino, né mangiare carne, se non in caso di malattia. Sul fondo della sala vediamo ciò che rimane dell’affresco dell’Ultima Cena, di autore ignoto e la scaletta che portava al pulpito.

Sul lato opposto a quello d’ingresso al chiostro, si aprono la porta del laboratorio e quella della sala capitolare. Il laboratorio era una grande sala divisa in due navate, sorrette da due colonne. Oggi è parzialmente diviso da un muro e da dei pilastri, che raggiungono la volta, per evitare il crollo del soffitto.

Nel laboratorio i monaci filavano, tessevano, lavoravano le pelli, producevano scarpe e abiti, costruivano la carta per i loro libri, intagliavano il legno e scolpivano la pietra. Per loro il tempo non aveva importanza. Il lavoro era alternato alla preghiera e alla meditazione. Importante era realizzare dei lavori ben fatti, perché ciò onorava Dio.

La sala capitolare è la più importante. A essa vi si accede attraverso una porta adornata con una triplice cornice. Delle trifore si aprono sul deambulatorio. A esse si affacciavano i conversi, perché a loro era precluso l’ingresso nella sala. Sul lato opposto alla porta, sedevano l’abate e gli scrivani e poi lungo il perimetro della sala, i monaci capitolari. Ogni giorno i monaci si riunivano. Leggevano un capitolo delle regole, che l’abate commentava, erano assegnati i lavori. Venivano anche discusse le questioni riguardanti la vita dell’abbazia. Ogni frate capitolare aveva diritto di voto. E’ il primo esempio di democrazia. Sopra la sala capitolare ci sono le celle dei monaci.

Usciamo da questa sala, entriamo in chiesa. La sua architettura è essenziale, non ci sono fronzoli, perché così aveva stabilito Bernardo da Chiaravalle, il fondatore del monachesimo cistercense. La chiesa è costruita in stile romanico lombardo con particolari gotici. Le volte sono a crociera. E’ a tre navate. Ha le absidi semicircolari, caso unico, perché nelle altre abbazie cistercensi le absidi sono squadrate. Osservandola bene notiamo che la sua struttura è asimmetrica. Anche questo particolare è un aspetto caratteristico dell’architettura cistercense, significa l’incompiutezza umana rispetto alla perfezione di Dio. Altri simbolismi sono presenti. La chiesa è orientata secondo l’asse est-ovest.

A ovest il buio dell’ingresso, a est l’abside è illuminato dalla luce del mattino, simbolo della vittoria di Cristo sul male. Anche le volte a crociera nei loro incroci hanno una simbologia, che richiama la storia della salvezza.

Il primo incrocio ha una stella bianca su fondo rosso, indica la creazione.

Il secondo incrocio ha un angelo, simbolo dell’annunciazione.

Il terzo un agnello, simbolo della nascita di Gesù.

Segue una stella rossa su fondo scuro, indica la passione e la morte di Cristo e sopra l’altare c’è una stella bianca su fondo rosso come segno della resurrezione.

L’altare ha un polittico ligneo di Pascal Oddone, che è stato collocato nel 1500. E’ dipinto su entrambi i lati. Le ante posteriori sono argentate e hanno le immagini di san Bernardo il fondatore e di san Benedetto il riformatore della regola, sul lato opposto le ante sono dorate e raffigurano i misteri gloriosi. La parte centrale ha sette nicchie collocate a piramide con le immagini dei misteri gaudiosi. La nicchia più alta ha l’immagine di Maria assunta. Nella chiesa ci sono anche delle statue lignee.

Terminiamo il giro percorrendo il deambulatorio riservato ai monaci. Sulla parete è appesa una costola fossile di balena. A essa è legata una leggenda. Si narra che in un periodo di carestia i monaci abbiano pregato intensamente e che una mattina abbiano trovato nella vasca del chiostro un enorme pesce, che fu il loro nutrimento.

Esternamente, staccati dall’abbazia, ci sono due edifici. Uno era il mercato, dove i conversi vendevano i prodotti del lavoro dei monaci: riso, ortaggi e anche i manufatti. Uno è la foresteria con il piano terra adibito a refettorio e il primo piano a dormitorio. Ospitava i viandanti maschi.

La visita ci riserva anche un’incredibile sorpresa. Tra la sala del refettorio e quella del laboratorio c’è una saletta che da aprile a settembre rimane chiusa. In questo locale vengono a partorire circa milleduecento femmine di pipistrello. Esse appartengono a due specie differenti: Vespertilio maggiore e Vespertilio di Blyth. Sono specie abbastanza simili tra loro come aspetto, ma con diverse diete. La prima specie si nutre di coleotteri (es. coccinelle), la seconda mangia ortotteri (es. cavallette). Le femmine escono alla sera alla ricerca del cibo. Poco dopo il suo arrivo ogni femmina partorisce un piccolo e lo allatta per diversi mesi. Verso settembre la colonia si disperde. I maschi, che nei mesi estivi hanno vissuto in modo isolato, cercano le femmine, perché ha inizio la nuova stagione degli amori. L’accoppiamento avviene in luoghi isolati e transitori, poi a novembre questi chirotteri vanno in ibernazione, essendo stanziali. Un monitor presente nella sala laboratorio ci permette di vedere e sentire cosa succede in tempo reale dentro questa grande nursey. Davvero interessante!

Nel giardino davanti all’abbazia all’ombra di un grande albero, pranziamo. Durante il pranzo gli acuti garriti delle rondini destano la nostra attenzione. Esse con voli arditi salgono e scendono intrecciando traiettorie fantasiose. Le osserviamo e notiamo che ogni tanto si dirigono sotto un balcone. Giuseppe monta il teleobiettivo ed esce a caccia d’immagini. Si apposta sotto il balcone. Quasi subito vede spuntare un tondo capino nero dal becco giallo e poi arriva la mamma rondine. Essa si attacca al nido con le zampette, si tiene in equilibrio con le ali e rigurgita il nutrimento in parte predigerito dentro il beccuccio spalancato del pulcino. Meraviglia della natura! Poi riprende il volo. Ecco dal nido sbuca un secondo capino. I pulcini si guardano attorno, cercano la madre, pigolano ininterrottamente, finché essa arriva di nuovo e soddisfa la fame di entrambi.

Riprendiamo il viaggio. La strada provinciale è molto trafficata. Numerosi camion non rispettano i limiti di velocità.

Il paesaggio agricolo è interessante. Stiamo attraversando una zona frutticola: gli albicocchi e i peschi hanno ormai dato quanto potevano, i meli stanno invece maturando i loro bei pomi. Attraversiamo il ponte sul Po. Qui è ancora giovane. Ha l’aspetto di un torrente, le sue acque sono trasparenti.

Svoltiamo a destra verso la Val Varaita, una delle valli che ha visto il giovane papà Enrico, quando prestava il servizio militare. E’ una valle molto lunga. Per un tratto sale dolcemente dentro un tipico paesaggio prealpino. Ha montagne dalle cime arrotondate, ricoperte di boschi. I paesi che attraversiamo sono anonimi.  Quattro tornanti consecutivi ci portano rapidamente sopra i 1000 metri di altitudine, poi con curve e controcurve continuiamo a salire. Attraversiamo altri paesi e ci chiediamo come potevano essere all’inizio degli anni ’40. Immaginiamo povere case di pietra ammassate intorno all’antica chiesetta, qualche osteria, unici luoghi di svago per i tanti soldati presenti. Giuseppe ricorda che suo padre conduceva i muli con i rifornimenti e che una volta ebbe dei giorni di rigore, perché li riconsegnò senza le coperte che riparavano il loro dorso dal basto. Il responsabile del furto non fu scoperto. Ci fermiamo alla frazione La Maddalena di Pontechianale. Sorge, dove il torrente Varaita s’immette nel lago artificiale. Sostiamo nell’area camper. A metà pomeriggio con una passeggiatina arriviamo al lago, poi giriamo per il paese, che conserva dei pittoreschi scorci rurali. Visitiamo la parrocchiale moderna e l’antica chiesa di santa Maddalena. In essa vi sono quattro grandi quadri di Maria Filippo Ravizza raffiguranti i quattro evangelisti. La loro particolarità è che il pittore ha dipinto Matteo, Luca, Marco e Giovanni affetti da polidattilia, cioè con sei dita nelle mani e nei piedi. Un’analisi condotta da alcuni studiosi porta a ipotizzare che il modello del pittore fosse portatore dell’anomalia genetica, un’altra ipotesi è che il pittore abbia commesso volutamente l’errore per far parlare di sé nei secoli. A voi quale ipotesi sembra più plausibile? A noi sembra più credibile la prima ipotesi.

Nella piazza del paese ci fermiamo davanti a una bacheca che mette in mostra delle fotografie risalenti agli anni trenta. In quell’epoca la valle non era ancora stata sbarrata dalla diga e dove ora è sommersa dal lago sorgeva la frazione di Chiesa. Le immagini descrivono i paesi della valle, come noi li avevamo immaginati.

Le nubi nere, che si erano addensate durante il nostro giretto, si sono diradate. E’ tornato il sole a scaldare le ultime ore del pomeriggio.

Dopo cena verso le ore 21.00 sentiamo avvicinarsi il suono della banda. Usciamo dal camper e sentiamo che l’armonia è di un canto religioso preconciliare: “Ti adoriamo ostia divina”. La banda apre una processione. E’ seguita dal sacrestano che porta la croce e dal sacerdote. Dietro c’è una portantina sorretta da quattro uomini. Sopra la portantina c’è la statua di Maria Maddalena. La santa ha i capelli fluenti e tiene in mano un teschio. Dietro la portantina sfilano i fedeli. La processione orante si dirige verso la chiesa.

 

22 luglio, mercoledì

Dalla Val Varaita alla Valle del Po lo spostamento è breve, circa novanta chilometri. Lasciamo la frazione di santa Maddalena, che oggi festeggia la sua patrona e ripercorriamo a ritroso la Val Varaita, caratterizzata nel suo fondo da tante edicole votive, poste sul ciglio della strada. Seguiamo le indicazioni per Saluzzo, perché in questa cittadina confluiscono le tre valli che scendono dal gruppo montuoso del Monviso: la Val Maira, la Val Varaita e la Valle del Po.

A Verzuolo, paese a pochi chilometri da Saluzzo, enormi cataste di tronchi d’abete occupano l’esteso deposito della cartiera Burgo. Arriviamo a Saluzzo. Il quadratino parlante, che abbiamo programmato per ottimizzare il percorso, a nostro parere non è stato costruito con logica. Infatti, entrati nella cittadina, ci indica deviazioni diverse da quelle stradali.  Il navigatore segnala la strada più breve, ma perché ingolfare di traffico e d’inquinamento un centro abitato, quando percorrendo le sue strade periferiche, pur un po’ più lunghe, si può evitare stress a chi guida e disagi ai residenti?

Seguiamo le indicazioni stradali ed eccoci all’imbocco della Valle del Po.

Nella sua parte più bassa ci ricorda la Valtellina. Poi inizia a salire con tornanti e curve. La strada si restringe. In una piazzola Giuseppe si ferma per far passare l’automobile che ci segue. Grazie! Prego! Saliamo e adesso siamo noi ad accodarci a un ciclista che pedala lentamente. Indossa la maglia di Contador. Quando la strada lo permette, allarghiamo e lo superiamo.

A Crissolo sostiamo per un attimo. Dobbiamo decidere se fermarci nella sua area camper e usufruire della navetta per salire al Pian della Regina o se proseguire col camper fino lassù, dove c’è un’area camper di piccole dimensioni, nella speranza di trovare il posto. C’è un’altra motivazione che ci fa riflettere sulla scelta. La strada deve essere piuttosto stretta, dato che il transito dei camper è consentito in salita dalle ore 7.00 alle 14.00 e in discesa dalle ore 14.00 alle 18.00. Decidiamo di rischiare la sorte. Superato il centro abitato di Crissolo, con una stretta curva a destra, s’inizia subito a salire repentinamente. La strada è davvero molto stretta. Capiamo perché il transito dei camper sia regolato, l’incrocio di due mezzi delle nostre dimensioni è impossibile. Incrociamo alcune automobili. Il transito non è semplice, ma con attenzione e cautela da parte di entrambi i mezzi si passa. Mentre saliamo, nella mente di Giuseppe affiora un dolce ricordo: la fotografia di suo papà soldato con una folta barba nera, scattata a Crissolo. Alle ore 11.30 arriviamo a Pian della Regina. L’area camper ha diversi posti disponibili. Il gestore della Locanda della Regina ci fa sistemare il camper e poi ci chiede di andare a registrarci. Mentre ci rechiamo verso la locanda, notiamo che sul piazzale del parcheggio delle automobili, vicino al monumento dedicato ai morti in trincea, c’è un tavolo preparato per la messa e il sacerdote pronto per la celebrazione. Ci fermiamo e ci accingiamo a partecipare al sacro rito, ricordando le tante messe da campo vissute nella nostra giovane età. La funzione inizia con un canto alla Madonna, sulle note dell’Ave Maria di Lourdes, ma con parole diverse.

 

Sul nostro Monviso,

Regina del Ciel,

del bel Paradiso

distendi il tuo vel

Ave Maria..

Proteggi chi sale

sui monti quassù;

difendi dal male

dà forza e virtù

Ave Maria..

Cerchiamo la pace

lassù dove sta

lassù dove tace

la grande città

Ave Maria..

Il grande Monviso

vestito di sil

non vale il tuo viso:

è un’ombra nel sol

Ave Maria..

Ti alziamo a Crissolo

un canto d’amor:

Tu coglilo al volo

e dallo al Signor

Ave Maria..

 

Il sacerdote introduce la messa dicendo che è dedicata a Nino Viale, che quarant’anni fa, venticinquenne, proprio il 22 luglio, è stato il primo alpinista a scendere con gli sci il Monviso lungo la parete nord. La messa è anche per la comunità di Limone Piemonte che oggi l’ha accompagnato e per tutti gli scalatori che dalla prima ascensione sono morti su questa montagna, in particolare per i tre che sono deceduti quest’anno.

Quanta neve c’era quarant’anni fa! Invece oggi il Monviso si presenta come roccia pura.

In questo momento la sua cima non si vede. E’ coperta da una densa nube nera. Tira un vento freddo, ma l’atmosfera è calda di spiritualità e fervore. L’anziano sacerdote introduce l’omelia dicendo che sarà breve, perché noi fedeli siamo in piedi, ma poi dà sfogo ai suoi ricordi. Lui è stato per molti anni il responsabile del soccorso alpino del Monviso. Si definisce ironicamente il Papa del Monviso! E’ salito sulla vetta più di cento volte e per ben cinquantatre ha celebrato la messa su cucuzzolo e lassù ha benedetto anche due matrimoni. Ricorda con quanta comprensione e amore su questo piazzale ha sorretto e abbracciato le madri in attesa dell’elicottero con i corpi dei loro figli sfracellati.

Un brontolio cupo e un potente tuono lo sollecitano. Il tempo passa. Guarda l’orologio e ci tranquillizza dicendo che ha chiesto a nostro Signore di trattenere la pioggia fino a mezzogiorno. La messa termina alle ore 12.15 senza che sia scesa una goccia d’acqua. Paola si accosta all’altare e chiede al sacerdote il suo nome. Don Luigi Destre ha per lei una pronta risposta e insieme a un radioso sorriso le dona l’immagine della Madonna con il canto.

Ci registriamo alla locanda. Intanto arriva Contador, che prosegue verso Pian del Re. Mentre pranziamo, inizia a piovere. Il breve acquazzone libera il cielo e finalmente il Monviso si mostra con tutta la sua bellezza. Davanti a noi c’è un bastione roccioso e subito dietro la cuspide del Monviso con vicino la cima più bassa del Visolotto e una serie di creste rocciose a chiudere l’arco aperto verso valle. Il giovane Po scorre spumeggiante verso una verde conca, dove le mucche brucano con insistenza, facendo risuonare i campanacci e i muggiti ai quali fanno eco gli acuti fischi delle marmotte.

Nel pomeriggio seguiamo la prima tappa alpina del Tour de France. Intanto, si susseguono come da previsione, una serie di temporali, intensi e brevi. Arriva anche l’ora del giretto. Muniti di ombrelli e giacca impermeabile, ci rechiamo alla chiesetta, che si vede all’inizio della mulattiera che sale verso il Pian del Re. La cappella è intitolata a Regina martyrum ed è dei frati Servi di Maria. Entriamo per una preghiera. Intanto udiamo il rumore del rotore di un elicottero e subito dopo compare il mezzo, che si dirige verso la piramide del Monviso, scomparendo tra le nubi. Dopo circa mezz’ora lo rivediamo dirigersi verso valle. Percorriamo la stradicciola che è tra i masi dell’alpeggio. Alcuni sono abbandonati e in rovina, altri sono stati ristrutturati e sono abitati.

La notte giunge quasi all’improvviso. La bianca luce del falcetto della luna crescente illumina le creste ormai nere e la luce dorata della cappella della Vergine ricorda a tutti che la creazione è un dono di Dio, dato all’uomo perché lo custodisca e ne abbia cura.

 

23 luglio, giovedì

“Laudato si’, mi’ Signore per sor’Acqua

la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta” (S. Francesco)

 

Alle ore 7.00 suona la sveglia. Subito apriamo gli oblò e i finestrini per scrutare il cielo. Non c’è una nuvola. Bene! La gita al Pian del Re si può fare.

In tre quarti d’ora siamo pronti per partire. Scegliamo di salire i circa trecento metri di dislivello lungo la mulattiera, che papà Enrico percorreva ogni giorno quando era di servizio in questa valle, guidando i muli con i rifornimenti, per i soldati di stanza in altura.

La mulattiera risale il corso del Po. Ha dei tratti erbosi, altri sono lastricati con sassi e ciottoli. Dove s’inerpica, diventa un sentiero sassoso. La salita è piacevole. Il giovane “grande fiume” scorre sfarfallando tra i sassi e precipita da piccole cascate per superare i dislivelli maggiori.

Una chiesetta costruita sopra il margine del primo precipizio sembra dire a chi sale: “Coraggio, un passo dopo l’altro, è il modo migliore per affrontare la vita.” Così noi, un passo dopo l’altro raggiungiamo la meta, impiegando mezz’ora in più rispetto al tempo segnato all’inizio della mulattiera.

Il Po nasce qui dal Pian del Re. Questo pianoro è ciò che rimane di un antico bacino glaciale. Nel tempo ha subito notevoli trasformazioni, che hanno originato diversi biotopi. Lo scioglimento del ghiacciaio ha formato un laghetto, che poi si è trasformato in palude. Oggi è una torbiera, nella quale gli umidi sedimenti erbacei posti in profondità, in mancanza di ossigeno, si stanno trasformando in carbone. Diversi rivoli scendono dai monti, che formano il massiccio del Monviso. Essi s’inabissano ai piedi delle cime sotto i ghiaioni e poi riemergono là dove il suolo permeabile incontra uno strato impermeabile. Ecco il Po sgorga tra alcuni massi: limpido, trasparente e puro.

Senza alcuna allusione politica, ma per reidratarci raccogliamo la sua acqua sorgiva e la beviamo.

Quale strada dovrà percorrere ogni sua goccia? Alcune stille appena nate, evaporano e tornano subito in cielo, esse andranno a cadere di nuovo chi sa dove. Altre iniziano il viaggio verso il mare, ma non tutte lo raggiungeranno direttamente. Ognuna avrà il suo compito da assolvere. Alcune si fermeranno lungo il percorso per dissetare erbe spontanee e coltivate. Altre disseteranno animali selvatici e mandrie. Altre genereranno energia e daranno impulso ad attività produttive. Ci sono anche quelle che continueranno a scorrere dando possibilità di vita alle specie ittiche, ma anche accogliendo loro malgrado scarichi e residui. Così il Po continuerà il suo percorso, rallenterà la sua corrente e allargherà il suo letto, riceverà diversi affluenti e poi si aprirà a ventaglio in un grande delta, che offre ospitalità a diverse specie di fauna stanziale e migratoria.

Ritorniamo al camper seguendo la strada asfaltata. Intanto il cielo si è rannuvolato e le basse nubi hanno cancellato le vette. Verso mezzogiorno uno scrocio d’acqua ci fa dire che è proprio vero che “le ore del mattino hanno l’oro in bocca”. Infatti, siamo riusciti a fare la nostra bella gita, abbiamo goduto il sole, l’aria fresca e il bel panorama.

La salita e la permanenza al Pian della Regina sono state un’ottima scelta. Infatti, alla locanda scopriamo che la navetta tra Crissolo e Pian della Regina è attiva solo il sabato e la domenica e quotidianamente solo nelle tre settimane centrali di agosto. Se non fossimo saliti col camper, non avremmo fatto la gita alle sorgenti del Po.

Alle ore 14.00 ci prepariamo per la partenza. Oggi ci spostiamo di circa centocinquanta chilometri. Siamo diretti al Moncenisio. Discesa tutta la valle, ci dirigiamo verso Barge. Percorriamo una piacevole strada provinciale immersa nel bosco, ma con il manto stradale un po’ sconnesso. Da Barge seguiamo le indicazioni per Pinerolo. Attraversiamo una zona piuttosto industrializzata, dove le imprese di estrazione e lavorazione delle pietre sono le più numerose. A Pinerolo con la superstrada raggiungiamo Torino. La canicola afosa che dal Pian del Re abbiamo visto aleggiare sopra la pianura, ora ci soffoca. Accendiamo l’aria condizionata. A Torino mediante il sistema delle tangenziali ci immettiamo nell’autostrada per Bardonecchia. A Susa usciamo e percorriamo la statale che conduce al Passo del Moncenisio in territorio francese. La salita è impegnativa con pendenze che raggiungono il 10%, però è sufficientemente larga, tale da non creare problemi per gli incroci. La valle in prossimità del passo è chiusa da una lunga diga di sassi e terra, che trattiene alle sue spalle un lago. Giunti al passo lo superiamo e ci rechiamo all’area camper presente sulla riva del bacino idrico. Le verdi acque del lago sono increspate dal vento. L’aria è fresca. Si sente che siamo a 2000 metri di altitudine. Indossiamo una felpa. Sono quasi le ore 18.00. E’ l’ora in cui molti camperisti si fermano. Dopo di noi sopraggiungono altri due camper. Uno lo conosciamo, è: “Orme sul mondo”. Con un cenno salutiamo Amelie e Pier. Posteggiano accanto a noi. La nostra reciproca conoscenza si approfondisce con una simpatica chiacchierata.

Immersi nel silenzio, davanti alla distesa d’acqua che diventa iridescente, attendiamo la notte.


Alpi Graie

 

24 luglio, venerdì

Ci svegliamo riposati. Il primo sguardo è per il lago, che questa mattina riflette l’azzurro del cielo. Giornata promettente. Partiamo, ma subito ci fermiamo. Cosa c’entrano gli elefanti con la montagna alpina? C’è un monumento sul passo a ricordo del passaggio di Annibale, che guidò gli elefanti fin quassù per sorprendere Roma attaccandola dal nord.

La discesa dal passo è ripida quanto la salita, al suo termine svoltiamo a destra e iniziamo a risalire il corso del fiume Arc. La pausa caffè la facciamo a Bessan, davanti al fronte pieno di seracchi del ghiacciaio Arcelle Neuve. Dopo pochi chilometri ci fermiamo nuovamente a Bonnevar sur Arc. E’ un antico villaggio con case in pietra. Camminiamo tra i suoi vicoli e viviamo mezz’ora con un ritmo sconosciuto. Visitiamo la sua chiesetta. Dal boulanger compriamo il pane e in un altro emporio del formaggio di capra, di produzione locale. Da questo pittoresco borgo parte la salita verso il Col de l’Iseran. Sono 1000 metri di dislivello di salita tanto impegnativa, quanto spettacolare. Impegnativa, perché nonostante non sia stretta, non ha protezioni verso valle e ha rocce sporgenti verso monte; spettacolare perché il paesaggio è sempre più alpino. Infatti, siamo entrati nel settore delle Alpi Graie che si estende dal Passo del Moncenisio al Colle del Ferret, sul monte Bianco. Vediamo i bacini glaciali ricoprire le alte vette, le lingue allungarsi nei canaloni, i fiumi uscire dalle bocche e scendere a valle con alti salti. Una comoda piazzola ci consente una formidabile sosta.

Nostro figlio Simone, che a Milano sta soffrendo il caldo torrido di questa estate, ci ha chiesto di mettere nel prossimo calendario al mese di luglio una fotografia che emani freschezza. Accontentato. Le fotografie scattate adesso potranno essere scelte per quel mese. A 2270 metri sul Col de l’Iseran posteggiamo. Uno sguardo a 360° e tanti clic permettono a Giuseppe di costruire la panoramica. Qui pranziamo e poi scendiamo verso la valle dell’Isére. I ripidi versanti hanno ghiaioni e pietraie, piste e impianti di risalita.

I canaloni scaricano massi, perché l’acqua che s’infiltra tra le crepe della roccia, gelando, aumenta il suo volume, crea pressione dentro la roccia stessa fino a spaccarla.

Eccoci a Val d’Isere. La rinomata località turistica ha case e alberghi costruiti secondo l’architettura alpina. Solo un albergo è una nota stonata in questa realtà montana. A valle del paese la strada segue la riva destra di un bacino idrico artificiale, è in parte in galleria. A Tignes percorriamo la diga e saliamo verso Tignes Val Claret, dove sostiamo nell’area camper. A metà pomeriggio arriva il temporale. Le previsioni meteorologiche sono davvero affidabili. Chiusi nel camper guardiamo la terza tappa alpina del Tour de France e tifiamo per Nibali, che sta attaccando la maglia gialla. Lo “squalo dello stretto” in sessanta chilometri di fuga mette alla frusta i corridori di classifica e risale dal settimo al quarto posto.

Dopo un breve giretto tra gli hotel e i residence, che deturpano il paesaggio, torniamo al camper, perché è scoppiato un altro forte temporale. Terminiamo la cena con un dolcetto di lamponi e mirtilli.

 

25 luglio, sabato

E’ piovuto tutta la notte. Questa mattina il cielo è parzialmente nuvoloso in alta quota, mentre dal fondo valle risalgono vaporose nubi bianche, che per la loro densità ristagnano a mezza costa. La scelta di passare la notte in questa località è stata dettata dal fatto che sulla carta geografica è segnata una cabinovia che porta ai piedi del ghiacciaio. Con nostro rammarico prendiamo atto che tutti gli impianti di risalita, la cabinovia e le diverse seggiovie, in estate sono ferme. Peccato.

Allora cosa si fa d’estate in una località non rinomata per le escursioni? Si praticano altri sport: golf, equitazione, parapendio, mountain bike.

Decidiamo di proseguire il viaggio, anticipando la tappa ipotizzata per domani. Il nostro zigzagare per le Alpi ci riporta in Italia. I chilometri che ci separano da La Thuile sono circa una cinquantina. Abbiamo tanto tempo, quindi affrontiamo la giornata con molta calma. Scendiamo fino a Tignes e invece di proseguire verso valle, torniamo al paese di Val d’Isére. Come ci è apparso ieri, attraversandolo, è molto signorile, però lo sentiamo poco umano, come tutti i luoghi senza storia, cresciuti solo grazie al turismo. Dopo il caffè, riprendiamo la discesa lungo la Val d’Isére. La valle è molto profonda e ombreggiata da fitte abetaie, che lasciano il posto a un bosco misto e poi formato solo da latifoglie, via via che ci si abbassa di quota. A Bourg Saint Maurice facciamo una sosta per rifornire il frigorifero e il serbatoio. Da molto tempo Giuseppe non pagava il gasolio 1,17 €/l! Vive la France! Pranziamo nell’assolato parcheggio del centro commerciale. Non è certo un posto poetico, ma data l’ora è l’unico a disposizione.

Da questo paese parte la strada per il Passo del Piccolo San Bernardo, che è il valico di confine con l’Italia. Sono le prime ore del pomeriggio. L’ascesa è solitaria. Arrivando al passo siamo accolti da una grande statua di San Bernardo, che è anteposta all’Ospizio Mauriziano. Bernardo, arcidiacono di Aosta nell’undicesimo secolo si dedicò alla visita delle valli alpine più isolate. Fondò scuole e ripristinò la disciplina ecclesiastica. Fece costruire gli ospizi del Piccolo e Gran San Bernardo, perché egli era consapevole dei pericoli che i viandanti correvano lungo quei cammini impervi.

Il santo ha ai suoi piedi il diavolo con una catena al collo. Narra la leggenda, che il diavolo aggrediva i viandanti. Allora Bernardo, incontrandolo colpì il suo capo col bastone e gettò sul suo collo la stola, che si trasformò in catena. Il diavolo incatenato simboleggia la vittoria del bene sul male. San Bernardo è il patrono dei viaggiatori, degli alpini e degli scalatori.

L’ospizio fu costruito nel XII secolo. La sua opera di accoglienza, di ospitalità e di soccorso continuò fino al 1940. Nel 1944 fu bombardato e distrutto. Ricostruito al termine della seconda guerra mondiale, continua a operare secondo il carisma del fondatore, sotto la guida dell’Ordine Mauriziano.

Il confine tra Francia e Italia non è sempre coinciso con quello attuale, stabilito con gli accordi del 1947. Oggi l’ospizio pur essendo italiano si trova in territorio francese. Con una breve camminata raggiungiamo un monumento. Esso è stato eretto nel 1955 dai reduci dei campi di sterminio italiani e francesi. Porta la scritta “mai più reticolati” nelle due lingue, a significare mai più schiavitù, mai più disumanizzazione dell’uomo da parte di altri uomini. E’ un monumento che inneggia alla fratellanza.

Il panorama riserva uno scorcio molto bello. Il Monte Bianco si staglia col suo niveo splendore contro il cielo azzurro.

Attraversa il passo anche un grande elettrodotto. Trasporta verso l’Italia l’energia elettrica prodotta in Francia con le centrali nucleari, costruite nella regione alpina. Ai francesi rimangono i vantaggi dell’esportazione, agli italiani i rischi. Infatti, i venti hanno prevalentemente una direzione da nord ovest verso sud est. Ci chiediamo a cosa sia servito il referendum del 1987 che fece chiudere le nostre centrali nucleari. L’Italia è proprio un paese umorale e di scarsa cultura scientifica!

Al passo sono presenti delle rovine romane, che testimoniano come anche in tempi antichissimi la catena alpina non sia stata una barriera insormontabile. Infatti, da qui passava la strada delle Gallie.

La discesa verso La Thuile richiede a Giuseppe maggiore accortezza, perché gli spericolati motociclisti, che incrociamo, sembrano gareggiare tra loro.

Ci fermiamo nell’area camper di La Thuile. Essa ha alle spalle la tumultuosa Dora Rutor, dall’acqua torbida per la grande quantità di sedimenti che trasporta in sospensione.

Con una passeggiata di venti minuti andiamo in centro. Passiamo il ponte sotto il quale la Dora di Verney, che scende dal passo del Piccolo San Bernardo, s’immette nella Dora Rutor. All’ufficio del turismo chiediamo delle informazioni per organizzare una gita e in chiesa prendiamo visione dell’orario delle messe.

 

26 luglio, domenica

Alle ore 11.00 partecipiamo alla messa nella chiesa parrocchiale. La celebra un sacerdote dell’est europeo. Egli introduce il sacrificio eucaristico presentando il battesimo che si celebrerà durante la messa e la memoria dei reduci dei campi di sterminio. Nell’omelia il sacerdote mette in relazione i due avvenimenti dicendo che senza memoria il futuro non potrà essere migliore e senza nuove generazioni non esiste il futuro.

La chiesa intitolata a san Nicola risale all’inizio del XII secolo. Originariamente era a tre navate. Fu devastata da alcuni incendi provocati dai francesi nei secoli XVII e XVIII. La chiesa attuale è stata consacrata nel 1742 dal vescovo di Aosta. Ha la forma di croce latina e le absidi semicircolari. Internamente ha subito delle ristrutturazioni per adeguarla alle norme liturgiche conciliari. Conserva l’antico tabernacolo di legno dorato e un Crocefisso ligneo del XV secolo molto venerato, perché testimonianze storiche riportano che nel 1794, quando i soldati francesi saccheggiarono la chiesa, non riuscirono a staccarlo dalla volta e a distruggerlo. Ancora oggi è possibile leggere accanto al Crocefisso l’iscrizione: “Haec Christi imago caeteris cunctis bello vastatis 1794 mirabiliter remarisit.” (Fra tutte le cose distrutte nella guerra del 1794, rimase miracolosamente salva questa immagine di Cristo).

Nel pomeriggio, dopo il Gran Premio di Ungheria, vinto dalla Ferrari di Sebastian Vettel, ci rechiamo nuovamente verso il centro del paese.

La Thuile è un borgo di circa ottocento abitanti. Il suo cuore antico si sviluppa lungo una stretta via che corre parallela all’attuale strada principale. E’ costituito da case di pietra addossate le une alle altre. Il resto del paese si è esteso intorno a questo nucleo con la classica architettura alpina.

Lungo la strada che porta all’area camper, oggi c’è un mercato dell’artigianato locale. Curiosiamo tra le bancarelle. Ci sono ramai, intagliatori del legno, magliaie, lavoratori dl cuoio. Troviamo alcuni regali. Il mercatino è rallegrato da un coro, che si accompagna con semplici strumenti musicali. I coristi vestono i costumi della tradizione della valle.

Inizia a piovere. Prima poche grosse e rade gocce, poi con l’alzarsi del vento, la pioggia diventa fitta e sottile. Rientriamo velocemente per mettere al riparo il bucato steso.

 

27 luglio, lunedì

Il nuovo giorno inizia con uno scuro scoiattolo, che zampetta nella zona pic-nic adiacente all’area camper. Ogni tanto si ferma, raccoglie qualcosa con le sue zampette anteriori. Si raddrizza, si guarda intorno con aria circospetta, poi rosicchia ciò che ha raccolto e si allontana zigzagando nella pineta. Ci fermiamo a osservarlo fino a quando scompare dalla nostra vista.

Lo spostamento di oggi è brevissimo da La Thuile a Courmayeur. Seguiamo il corso della Dora Rutor, che ha scavato una profonda valle per confluire nella Dora Baltea. La strada scende con nove tornanti. A Pré Saint Didier svoltiamo a sinistra e raggiungiamo la meta.

A Courmayeur i camper possono sostare gratuitamente nel piazzale delle funivie, che è dotato del pozzetto di carico e scarico. Siamo ai piedi del Monte Bianco, ma da qui non si vede la sua cima, perché è nascosta dal bastione lungo il quale sale la nuova funivia panoramica fino a 3500 metri di altitudine. Vediamo invece molto bene il ghiacciaio della Brenva, che il mitico scalatore Walter Bonatti, racconta di averlo sempre attraversato di notte, perché avendo molti seracchi, scarica ingenti quantità di materiale detritico. Di notte con il freddo l’acqua gela e il ghiacciaio rimane più stabile, quindi meno pericoloso. Dal ghiacciaio scendono verticalmente diversi rivoli, che vanno a ingrossare la Dora di Veny. Qui a Courmayeur la Dora di Veny si unisce alla Dora di Ferret, che scende dalla valle omonima. Insieme formano la Dora Baltea.

Sul piazzale c’è l’eliporto, che vede un rapido via vai di due elicotteri.

Dopo pranzo con il bus circolare ci rechiamo in centro. Visitiamo la parrocchiale dedicata a san Pantaleone del quale oggi si celebra il martirologio. Pantaleone nacque da una madre cristiana e da un facoltoso padre pagano e non fu battezzato. Fu istruito nell’arte medica e iniziò la professione. Nel corso della sua vita incontrò un sacerdote che l’evangelizzò parlandogli della potenza di Cristo, medico dell’anima. Pantaleone si convertì al cristianesimo. Alla morte del padre, distribuì la ricchezza ereditata tra i poveri e continuò la sua professione di medico dando assistenza gratuita. Per invidia dei suoi colleghi lo denunciarono. Subì le persecuzioni di Diocleziano e nel 305 fu decapitato.

Passeggiamo per la cittadina elegante e ricca e ci gustiamo un buon gelato. Torniamo al camper. Il posteggio ha cambiato fisionomia. Le numerose automobili non ci sono più. Il loro posto è occupato da una decina di camper e quattro tir. Siamo viaggiatori diversi, ma con esigenze simili. Per gli autisti di questi grossi mezzi andrebbero però attrezzate aree più confortevoli, perché nel loro angusto abitacolo non hanno possibilità di muoversi.

Il sole è tramontato, ma il cielo è ancora chiaro. Lo sguardo sul ghiacciaio della Brenva ci dona un quadro d’altri tempi, tutto giocato sulle innumerevoli sfumature del grigio.

 

28 luglio, martedì

Quanti modi ci sono per svegliarsi? A volte ci si desta spontaneamente, oppure al suono della sveglia, o con il canto del gallo o di altri uccellini. Questa mattina alle ore 6.30 Giuseppe si sveglia spontaneamente. Si alza per vedere se la giornata si presenta bene e rimane folgorato dalla bellezza del ghiacciaio della Brenva. Le alte pareti che lo racchiudono brillano dorate, mentre la coltre di ghiaccio è ancora dormiente e scura. Giuseppe indossa, sopra il pigiama, i pantaloni e il pile e si espone al freddo del mattino per scattare qualche fotografia. Poi rientra e si rimette a letto. Ci riaddormentiamo.

In questa vacanza ci è anche capitato di essere chiamati al giorno dal fischio delle marmotte, dai campanacci delle mucche o dai rintocchi delle campane.

La seconda sveglia di oggi è più traumatica, peggio dell’autobus che passa sotto casa. Alle ore 7.30 il rumore metallico del rotore dell’elicottero, accompagnato dalla vibrazione del camper, dovuta allo spostamento d’aria, ci ha distolto dai sogni mattutini. Per nostra fortuna la sveglia era puntata per un quarto d’ora dopo, quindi nonostante il rumore fastidioso non ci siamo innervositi. Alle ore 9.00 attrezzati per la gita prendiamo l’autobus circolare che ci porta a Courmayeur centro e qui saliamo sull’autobus per la Val Veny. Su consiglio del primo autista acquistiamo il biglietto giornaliero. Con 3,50 € a testa faremo i quattro tragitti. Il bus che sale lungo la Val Veny transita accanto al santuario di Notre Dame de la Guérison. E’ la chiesetta bianca incastonata tra gli abeti che si vede dal piazzale delle funivie. Alla nostra destra il grande ghiacciaio della Brenva contribuisce non poco ad arricchire con la sua acqua la Dora di Veny. L’autobus sale per la stretta valle e in fondo al primo pianoro fa capolinea. Da qui inizia la nostra camminata verso il rifugio Elisabetta. La strada inizialmente è ancora asfaltata. Sale con pochi tornanti tagliati nella morena ormai consolidata, fino a superare quella che un tempo era la soglia glaciale. Qui la strada diventa una carrareccia di terra battuta. C’è un bivio. Se si prosegue, diritto in pochi minuti si raggiunge il rifugio Combal, se si attraversa il ponte e si percorre il versante destro della valle, si costeggia il lago di Combal e ci s‘incammina verso altre mete. La più prossima è il rifugio Elisabetta. Il lago un tempo occupava tutta la piana. La sua evoluzione è in fase avanzata, Verso la morena è ormai una prateria che si sta trasformando in un bosco di betulle e faggi. Nella zona più centrale la prateria si confonde con la palude, ancora più in centro il lago è ancora tale. La sua acqua verde e opalina è attraversata dalla corrente del fiume glaciale che gli deposita i sedimenti. Altri rivoli giungendo nella piana formano pozze cristalline.

Sulla strada altri escursionisti stanno facendo la nostra gita. Alcuni sono più lenti di noi, altri ci sorpassano con passo spedito, beata gioventù! C’è chi ci sorpassa quasi correndo, ma poi siamo noi che lo riprendiamo, nonostante le nostre pause fotografiche. Vediamo il massiccio del Monte Bianco. La sua vetta principale è circondata da creste e denti rocciosi, degni sudditi del re delle Alpi. Percorsa la sponda lacustre, la strada inizia a salire con notevole pendenza. Sopraggiungono dei ciclisti in mountain bike. Iniziano la salita innestando il rapporto adatto. Lo sforzo necessario è notevole, perché il fondo ora è costituito da pietrisco sconnesso. Alcuni si arrendono e proseguono spingendo a mano la bicicletta. Noi continuiamo il nostro cammino tenendo il passo regolare. Il rifugio Elisabetta, che è apparso alla nostra vista al ponte, è ormai vicino. Dall’alto ci vede salire. Inizia a farsi sentire il vento che scende dal passo; ma perché quando servirebbe una spinta, il vento è invece sempre contro?

Arriviamo al rifugio avendo utilizzato un tempo poco superiore a quello indicato sul cartello al capolinea dell’autobus. Ci copriamo. Fa freddo per pranzare all’aperto. Entriamo nel rifugio. I tavoli sono quasi tutti completamente occupati. Il gestore ci trova due posti vicino ai ciclisti tedeschi che hanno spinto a mano le biciclette. Per pranzo ordiniamo la “polenta concia”. Ce la servono dentro una ciottola di coccio. E’ bollente e rimane calda fino all’ultimo cucchiaio.

Torniamo a valle giusto in tempo per salire sull’autobus delle ore 15.40.

Ci sono già tanti gitanti, molti stranieri. Quando arriva e apre le porte c’è l’assalto alla diligenza.

Tornati al piazzale delle funivie, per circa un’ora assistiamo al frenetico lavoro dell’elicotterista. Egli manovra la libellula meccanica come se fosse una bicicletta. Arriva dall’alto, dove su qualche crinale o vetta si sta lavorando. Porta giù, appesa a una fune, che ondeggia paurosamente, casse di materiale. Appena gliele sganciano, con una giravolta riprende il volo. Va avanti e indietro in continuazione. Alle ore 19.00 ripone l’elicottero nell’hangar e il silenzio ci conduce alla notte.

 


Alpi Pennine

 

29 luglio, mercoledì

Ci alziamo alle ore 8.00, ma riusciamo a partire solo dopo un’ora e mezza, perché un maldestro camperista ha combinato un pasticcio nella postazione di carico e scarico. Dovendo anche noi governare il mezzo, attendiamo con pazienza che risolva il guaio. Saliamo verso il tunnel del Monte Bianco. Quest’anno questo canale di comunicazione con la Francia festeggia il suo decimo lustro.

Il tunnel collega Courmayeur con Chamonix. E’ una galleria unica a doppio senso di circolazione, lunga poco più di undici chilometri e mezzo.

Inizia ai piedi del ghiacciaio della Brenva all’altezza di 1381 metri, raggiunge nel mezzo i 1395 metri ed esce sul versante francese ai piedi del ghiacciaio di Bossons a quota 1271 metri. Il progetto del tunnel risale al termine della seconda guerra mondiale. I lavori presero avvio nel 1959 e il 14 agosto del 1962 gli operai italiani e francesi s’incontrarono abbattendo l’ultimo diaframma. Fu inaugurato il 16 luglio 1965 dal Presidente italiano Giuseppe Saragat e da quello francese Charles De Gaulle.

Il 24 marzo 1999 un tir carico di farina e margarina, entrato dal lato francese, prese fuoco e si fermò dentro il tunnel. Si creò l’effetto forno, anche perché le fiamme, alimentate dal carico combustibile, si potenziarono. I vigili del fuoco impiegarono cinquanta tre ore per domare il rogo che fece morire carbonizzate trentanove persone. Il tunnel rimase chiuso per tre anni. Nel ripristino furono migliorati anche i sistemi di sicurezza. Fu riaperto il 9 marzo 2002. Ora il traffico camionale è contingentato.

Arrivati in prossimità delle porte di pedaggio, sembra che il Trattato di Schengen non sia più valido. Un posto di blocco della polizia fa transitare un veicolo alla volta. Se questo serve a garantire la sicurezza, ben vengano i controlli. Il tunnel è a pagamento e la tariffa è in base all’altezza del mezzo. Se non si supera i tre metri, il costo è quello delle automobili, cioè 58,50 €. Non è poco, però questo è un anno particolare per il tunnel, non potevamo tralasciarlo nel nostro viaggio attraverso le Alpi. Viaggiamo in esso mantenendo la velocità media tra la minima e la massima consentite. Nella nostra direzione viaggiano pochi mezzi, la distanza tra chi ci precede e chi ci segue è maggiore dei 150 metri obbligatori.

All’uscita dalla galleria, in Francia, troviamo il controllo della gendarmerie. La poliziotta ci ferma e ci chiede i documenti. Giuseppe mostra il suo, poi mentre Paola sta cercando la sua carta d’identità dentro la borsa, la poliziotta le chiede se è italiana. Alla risposta affermativa, sulla fiducia, ci lascia ripartire.

Scendiamo verso Chamonix. Raggiunta la cittadina transalpina non ci fermiamo nella sua area camper, perché abbiamo bisogno dell’elettricità per ricaricare le batterie. Dopo un po’ di spesa a un Carrefour, piccolo ma ben fornito, ci rechiamo al Camping Les Arolles, che si trova in città in località Le Cry.

Il camping è piccolo e piuttosto pieno, per fortuna un posto per noi c’è.

Ci sistemiamo e con calma Paola prepara il pranzo: risotto con la salsiccia. Intanto le dense e basse nubi, che da questa mattina gravano sui monti, condensano. Inizia a piovere. Scende la classica pioggia di montagna insistente, forte con brevi momenti di rallentamento.

Dopo pranzo, saranno il tempo umido e bigio, oppure la stanchezza accumulata in tanti giorni di guida impegnativa, o le ultime due notti non completamente silenziose, o le tre cause insieme, a determinare l’abbiocco di Giuseppe. Un’ora di riposo è evidentemente necessaria.

A metà pomeriggio, anche se piove ancora, ci rechiamo in centro. Chamonix è una bella cittadina. E’ attraversata dal fiume Arve, che oggi scorre color caffelatte con un’elevata corrente. Passeggiamo lungo la via principale e l’isola pedonale. Guardiamo le vetrine dei negozi il cui genere merceologico è prevalentemente abbigliamento e attrezzature per la montagna. Visitiamo la chiesa parrocchiale e ci rechiamo all’ufficio del turismo per recuperare gli orari del trenino che porta al ghiacciaio del Mer de Glace.

Qui sono esposti dei cartelloni che spiegano l’evoluzione dei ghiacciai del versante francese del Monte Bianco. Riportano studi del Comitato glaciologico francese con sede a Grenoble. A Paola interessano. Anche suo papà ha lavorato come geografo per il Comitato glaciologico italiano. Lui monitorava annualmente i ghiacciai delle Alpi lombarde. Tutti i ghiacciai sono in costante arretramento. Quello di Bossons aveva la lingua che nel 1800 giungeva a Chamonix. Nell’ultimo secolo il suo fronte è risalito verso il monte di 1,2 chilometri. Tra il 1960 e il 1990 è arretrato di ben 512 metri. Il suo spessore attuale è di solo 170 metri. Si stima che tra il 2010 e il 2030 arretri ulteriormente di poco più di 800 metri.

Le cause del riscaldamento terrestre, che portano allo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai montani sono diverse. Alcune sono naturali, ma non possiamo ignorare il notevole aumento dell’effetto serra procurato dalle più disparate attività umane, che riversano nell’aria enormi quantità di anidride carbonica.

Torniamo in campeggio. Proprio qui verifichiamo il richiamo internazionale di questa famosa località alpina. Ci sono degli irlandesi, dei finlandesi, un equipaggio della repubblica Ceca, i tedeschi, gli inglesi, gli scozzesi, gli olandesi e noi italiani.

 

30 luglio, giovedì

Ieri sera ha smesso di piovere, però questa mattina il cielo è ancora coperto e nubi basse corrono lungo la valle. Decidiamo di aspettare il miglioramento delle condizioni meteorologiche previsto per le prossime ore, prima di intraprendere la gita. Dedichiamo la mattina ancora a Chamonix. Passeggiamo lungo il tumultuoso Arve e troviamo un piccolo mercato di prodotti artigianali. Gli artigiani vendono i loro prodotti e alcuni sono anche all’opera. Le loro creazioni di legno, cuoio, metalli e pietre sono davvero originali. Giuseppe regala a Paola un paio di orecchini di corniola. Grazie!

In una bancarella sono esposti manufatti con i fiori alpini essiccati. Ha composizioni davvero graziose, sono un’ottima idea regalo. Il cielo intanto si rischiara, le nubi si aprono e fanno da cornice alla vetta più alta d’Europa.

Il Monte Bianco visto da Chamonix è davvero bianco. Il suo niveo candore luccica sotto i tiepidi raggi del sole.

Dopo pranzo, mentre il sole sembra riuscire a conquistarsi il cielo, Giuseppe studia opuscoli e orari. Con la carta geografica alla mano programma la gita del pomeriggio. La meta è Montenvers-Mer de Glace. Raggiungiamo la stazione da cui parte il treno a cremagliera. Alle ore 15.00 partono uno dietro l’altro, due trenini rossi, pieni di turisti. Ciascuno è formato da due vetture. Siede vicino a noi una giovane coppia russa. Il treno sale lentamente affrontando una pendenza che varia dall’undici al ventidue per cento. Prima attraversa la fascia boscosa, una fitta abetaia, poi raggiunta una certa altitudine davanti ai nostri occhi si apre il panorama sulla valle sottostante e le montagne del versante opposto che la racchiudono. Molti guardano con ammirazione tanta bellezza, ma un ragazzino non distoglie gli occhi e la mente dal suo cellulare.

La cremagliera è a binario unico. Lungo la linea ci sono due sdoppiamenti che permettono di incrociare i convogli in discesa. Alcune brevi gallerie e qualche viadotto consentono di superare gli speroni rocciosi e di passare da un canalone all’altro. Per chi soffre di vertigini, è consigliabile non guardare in basso.

In venti minuti, percorrendo cinque chilometri, il trenino supera un dislivello di novecento metri e si ferma a 1913 m di quota. Qui nel 1820 si era sul margine del ghiacciaio, chiamato Mer de Glace, mare di ghiaccio, proprio per la sua grande estensione e profondità. Oggi la stazione di Montenvers si trova molto in alto rispetto al ghiacciaio.

L’osservazione dall’alto permette di cogliere il grande arretramento avvenuto negli ultimi due secoli. C’è una netta linea di demarcazione. Dove all’inizio del XIX secolo c’era il ghiaccio, il terreno è ancora brullo e sassoso. Sopra invece è ricoperto dalla vegetazione.

Si può scendere fino al fronte e penetrarlo per un centinaio di metri dentro una galleria scavata nel ghiaccio. Per raggiungere la grotta di ghiaccio si può utilizzare una cabinovia o percorrere un sentiero. Scendiamo lungo il sentiero. E’ interessante prendere nota dei livelli che il ghiacciaio raggiungeva negli anni passati. Negli ultimi trent’anni si è abbassato di circa 30 metri. Il ghiacciaio non si presenta bene. Ci si aspetterebbe di vedere una lingua bianca e tormentata, invece il ghiaccio è quasi tutto ricoperto dai detriti morenici. Invece il panorama circostante è spettacolare e interessante. Tra le nuvole compare la cuspide rocciosa del Dru. Alla sua destra un’altra valle glaciale non fonde più la sua lingua con quella del Mer de Glace. E’ diventata una valle pensile. Il suo fiume con una cascata si getta nel fiume sottostante. Raggiungiamo l’arrivo della cabinovia. Da qui bisogna ancora scendere ben quattrocento gradini. Finalmente siamo davanti alla grande bocca dalla quale sgorga acqua. Entriamo nella grotta. Le sue pareti sono trasparenti, levigate e ondulate. Sembrano di plastica. Il freddo e il gocciolamento danno la certezza di non essere in uno stand di un parco divertimenti, ma dentro una magnifica realtà. La grotta è illuminata con colorate luci a led. In alcune nicchie ha delle sculture di ghiaccio che rappresentano la vita degli abitanti della valle nel XIX secolo. Sono anche esposte delle fotografie d’epoca a testimoniare lo stile di vita di allora, ancora molto semplice.

Usciti dalla grotta, con calma risaliamo fino alla cabinovia e poi torniamo in alto con essa. Qui ci attende una sorpresa. Un lungo serpentone di persone è in fila per salire sul trenino. Ci mettiamo in coda. Dopo quarantacinque minuti saliamo sulla cremagliera. Giunti a Chamonix, tornando verso il campeggio, Giuseppe fotografa il monumento a Balmat, il francese che insieme al britannico Paccard conquistò per primo la vetta del Monte Bianco. Era l’8 agosto 1786 alle ore 18.23. Lo sguardo dell’ardimentoso alpinista è rivolto verso la vetta e sembra invitare chi lo guarda a distogliere lo sguardo da lui e a indirizzarlo verso la sua conquista. Vistiamo anche il piccolo cimitero stretto intorno alla chiesa protestante. Esso ospita le spoglie di alcuni alpinisti morti durante la scalata.

Arriviamo a Le Cry. La stradina che conduce al campeggio ha come sfondo la lingua del Glacier des Bossons.

 

31 luglio, venerdì

Con trepidazione alle ore 8.00 apriamo gli oblò. Ci aspettiamo di vedere due quadrati azzurri ed è così. Bene! La gita al Glacier des Bossons si può fare.

Con il bus numero due, la cui fermata dista poche centinaia di metri dal campeggio, ci spostiamo in direzione del ghiacciaio. Viaggiamo gratuitamente, perché al nostro arrivo il gestore ci ha consegnato due biglietti per viaggiare gratis sui bus della città per tutto il tempo della nostra permanenza. Ecco come l’ufficio turistico agevola chi viene in vacanza e lo incoraggia a non congestionare il traffico cittadino. Giunti al capolinea, con la seggiovia saliamo fino alla base del fronte glaciale. Non chiedete a Paola com’è il paesaggio di Chamonix visto dalla seggiovia. Per esorcizzare la paura del vuoto, viaggia a occhi chiusi. A cinquanta metri dell’arrivo della seggiovia c’è un rifugio con un bel balcone che permette di ammirare il fronte del ghiacciaio alto circa venti metri.

Il Glacier des Bossons scende dal Monte Bianco. Ha un’estensione di 8,5 chilometri quadrati e il suo scivolamento è in media di duecentocinquanta metri l’anno. Anche questo ghiacciaio è in fase di arretramento. Infatti, lateralmente ha lasciato scoperti strati rocciosi, dopo averli levigati con la sua azione erosiva.  Accanto al rifugio, appoggiato su una roccia, c’è un grande canotto di salvataggio. Apparteneva al Boeing 707 della compagnia Air India, denominato Kanchenjunga e precipitato il 24 gennaio 1966. L’aeroplano stava completando il terzo tratto del suo viaggio Mumbai – Delhi – Beirut – Ginevra -New York. A causa di un’avaria della strumentazione e delle pessime condizioni meteorologiche il pilota sbagliò a calcolare la sua posizione rispetto al Monte Bianco. Il controllore di volo di Ginevra se ne accorse e comunicò al pilota l’errore, ma egli, fraintendendo la comunicazione, iniziò a scendere di quota.

A 4750 metri di altitudine impattò con la montagna. Morirono tutte le centodiciassette persone presenti sull’aereo. Nel 2012 il ghiacciaio restituì il reperto.

Da questo rifugio partono delle gite adatte a diverse capacità escursionistiche. Noi decidiamo di salire al rifugio Les Piramides. Volendo da quel rifugio si può proseguire per cammini molto più lunghi e raggiungere dei bivacchi. Il sentiero sale nel bosco con un tracciato a tornanti. Attraversa una foresta mista di conifere e latifoglie. Essa è ombrosa, ma non ha palchi, così la luce riesce a filtrare e permette la vita di un rigoglioso sottobosco. L’intensa pioggia di due giorni fa e l’umidità dovuta alla notevole escursione termica giornaliera favoriscono la crescita dei funghi, che profumano l’aria. Il sentiero alterna diverse pendenze. Alcuni tornanti sono dei semipiani, altri sono ripidi, presentano gradini naturali costituiti dalle rocce affioranti e dalle nodose radici delle conifere, altri ancora sono tratti da capra, dove il fondo sconnesso, associato alla ripidità, rende faticosa l’ascesa. Noi saliamo come nostra abitudine con passo lento e regolare. Diverse persone ci raggiungono e ci sorpassano, sono però tutte più giovani di noi.

Dopo tanti passi arriva la pausa fotografia! La svolta di un tornante presenta un balconcino naturale sulla lingua glaciale. Il quadro è stupendo. La lingua è molto tormentata. Profondi crepacci longitudinali e trasversali disegnano sulla sua superficie dei seracchi spettacolari che si ergono verso l’alto con guglie e colonne. Ogni tanto un cupo rumore svela la caduta di un pezzo di ghiaccio o di un grosso masso.

Riprendiamo il cammino. Adesso il sentiero è tracciato sull’altro versante della morena laterale. Poi s’indirizza nuovamente nella valle glaciale. Qui è tagliato nella roccia. Una piccola ferrata facilita la discesa lungo la falesia. Poi si risale ancora fino al rifugio. Esso è una piccola baita di legno con un esiguo terrazzino, che guarda dall’alto le guglie della lingua glaciale. Ecco spiegato il suo nome: Les Piramides. Ci accomodiamo a un tavolino e pranziamo con un panino. Il sole caldo e il riflesso del niveo specchio mettono in azione i nostri melanociti.

Non ci si stanca di ammirare paesaggi così belli. I blocchi di ghiaccio hanno sfumature azzurrognole sulle facce in ombra, mentre brillano come diamanti nelle loro parti illuminate. Alcune guglie sembrano rappresentare figure o oggetti. Il ghiacciaio dall’apparenza immobile è invece molto vivo e ricco d’informazioni. I suoi ghiacci più profondi risalgono a molti secoli fa. Essi sono ricoperti dal ghiaccio recente, che si forma grazie a un processo di cristallizzazione della neve e dell’acqua meteorica. All’inizio della sua formazione i cristalli sono piccoli, poi man mano che la massa ghiacciata scende in profondità, i cristalli aumentano la loro grandezza. Intanto avviene il processo di scivolamento, ma la forza d’attrito che si genera sul fondo e lungo i fianchi è diversa da quella della massa centrale. Il ghiacciaio quindi pur essendo compatto scivola con velocità differenti. Ciò genera delle fratture sulla sua superficie, che possono avere dimensioni diverse sia di lunghezza, che di profondità. Sono i crepacci tanto temuti dagli alpinisti, se sono celati da ponti di neve cedevole.

Di fronte a noi c’è l’Aguille du Midi, raggiunta sulla sua cima a quota 3800 m da una discussa funivia. Sopra di noi il tondeggiante Monte Bianco completamente ricoperto dal ghiaccio. Sotto di noi vediamo la verde valle solcata dal fiume Arve e Chamonix.

Tornati in campeggio, come defaticamento, andiamo a comprare il pane. Poi una doccia rigeneratrice ci rimette in sesto.

 

 

 

1 agosto, sabato

Con il cordiale “bon route” del simpatico gestore del campeggio ci mettiamo in viaggio. La pioggia intensa della notte continua incessante. Attraversiamo Chamonix e seguiamo a ritroso il corso del fiume Arve verso il Col des Montets, che prende il nome del massiccio roccioso dalle tante cime aguzze che chiude la valle. Questo colle pur essendo relativamente alto fa da spartiacque tra la regione francese dell’Alta Savoia e la regione svizzera del Vallese.

Poco dopo il colle c’è la frontiera franco-elvetica. Essa non è controllata da entrambi i paesi. Da lì inizia la discesa verso Martigny. Man mano che ci abbassiamo, il paesaggio cambia. La vegetazione alpina e i pascoli diventano boschi di latifoglie ed erbai e poi frutteti e vigneti. Lungo la strada bancarelle improvvisate vendono le albicocche locali.

Martigny è una cittadina che si è sviluppata su un pianoro di fondovalle. La transitiamo e ci indirizziamo verso il Colle del Gran San Bernardo. Come sta cambiando l’architettura della Svizzera! Passiamo attraverso villaggi, le cui nuove abitazioni sono dei parallelepipedi a più piani di cemento intonacato. La classica cartolina svizzera, da queste parti è ormai un ricordo.

Arriviamo al bivio in cui a destra si sale verso il Colle del Gran San Bernardo e, a sinistra, s’imbocca il tunnel, che lo bypassa.

Nonostante la pioggia, seguiamo la strada che sale al colle.

Il tempo perturbato e le montagne fanno perdere il segnale al navigatore, che inizia a dare indicazioni demenziali, prima di zittirsi. Il paesaggio è aspro.

Le rinomate mucche svizzere pascolano tranquille tra le rocce affioranti, i rododendri non più in fiore e i rivoli torrentizi. Abbiamo raggiunto l’altezza delle nubi. Il panorama scompare. Saliamo ancora ed ecco compare la sagoma dell’Ospizio. Siamo a quota 2473 m. Non c’è molto posto per posteggiare, ma una veloce sosta ce la concediamo. C’è la fotografia da scattare.

Siamo anche fortunati perché incrociamo un signore con due cani san Bernardo. Meglio di così!

Abbiamo raggiunto la prima zona delle Alpi centrali, quella delle Alpi Pennine.

Mentre scendiamo verso Aosta, siamo invitati da un motociclista, seguito da un’automobile, a rallentare. Al loro seguito stanno salendo in bicicletta dei ciclisti. Alcuni hanno un buon passo, altri mostrano agilità pedalando con rapporti corti, altri ancora sono in affanno. Ci stupisce il fatto, che tutti indossino la stessa maglia.

Passando per Gignod, Paola invia un SMS di saluto a suo fratello Alberto. Peccato che non sia ancora presente in questo luogo di villeggiatura, una sosta per un breve incontro l’avremmo fatta volentieri.

Ad Aosta ci fermiamo presso un centro commerciale per un po’ di spesa. Qui troviamo posteggiato un furgone di un costruttore di biciclette con l’adesivo XVIII giro della Valle d’Aosta. Giuseppe chiede se i ciclisti che abbiamo visto stavano gareggiando. Gli rispondono che quella era una corsa amatoriale, non competitiva da Aosta al Gran San Bernardo.  La maglia commemorativa della manifestazione è stata donata ai primi quattrocento iscritti e doveva essere indossata per la corsa.

Pranziamo con il croccante pollo allo spiedo appena acquistato. Riprendiamo il viaggio. Da Aosta a Chatillon percorriamo la statale. E’ un breve e piacevole viaggio. Costeggiamo la Dora Baltea, che ha ormai raggiunto pienamente il rango di fiume. A Chatillon svoltiamo a sinistra e saliamo verso Breuil-Cervinia. Dopo pochi chilometri ci fermiamo nell’area camper, che dista dal centro abitato poco meno di due chilometri. Un’ora di riposo ce la concediamo, poi con i piedi ben protetti dagli stivali di gomma e ben coperti, la temperatura è di solo 8°C, ci rechiamo in paese. Qui partecipiamo alla santa messa prefestiva, celebrata nella chiesa parrocchiale, dedicata a Maria Regina delle valli aostane. Intanto smette di piovere. Usciti dalla chiesa, la sagoma del Cervino si fa intravedere velata dalle nubi che risalgono la valle. In quota è nevicato. Un sottile strato bianco ricopre, come una trina, le rocce e i prati più alti. Mentre torniamo, notiamo che sul prato del campo di golf qualcosa in rapido movimento. Ci fermiamo a osservare. Sono tante marmotte che, uscite dalle tane, scorrazzano indisturbate, riprendendo possesso dell’ampio spazio sottratto al loro habitat. Si vedono chiaramente i grandi fori di entrata delle loro tane. Immaginiamo che qualche pallina finisca anche dentro queste buche. Le marmotte, che per natura sono giocherellone, giocheranno con questi intrusi, che ogni tanto cadono dall’alto?

 

 

2 agosto, domenica

Apriamo gli scuri del parabrezza e ci appare il Cervino, vestito della sua livrea invernale. La bella visione è di buon augurio per la giornata.

Ci rechiamo in paese attrezzati con due fotocamere. Una di esse ha montato il teleobiettivo, nella speranza di immortalare le marmotte, l’altra ha l’obiettivo 24-105 per fotografare il panorama.

Cervinia è la località turistica del comune di Valtournache. E’ adagiata nella conca Breuil, che in patois significa terra di molte acque. In origine era una zona di alpeggio con poche case raggruppate intorno alla chiesetta. Oggi il nome Cervinia è di grande richiamo. La località è diventata un’apprezzata meta turistica.

Sul campo da golf si sta già giocando. Eleganti signori trainano i loro trolley carichi di mazze. Estraggono il ferro adatto al tiro. Provano e riprovano più volte il gesto, poi colpiscono la pallina con determinazione. Impavide, le marmotte trotterellano leste sul green, difendendo il proprio diritto territoriale. S’imbucano nella tana solo quando avvertono il rumore delle macchinine dei golfisti più danarosi o più pigri.

Il Cervino dai suoi 4478 metri di altezza ci guarda avanzare e sembra illuminarsi di gloria per festeggiare anche con noi i suoi centocinquant’anni della sua conquista. Era il luglio 1865 quando due cordate affrontarono per la prima volta quella piramide di roccia. La cordata inglese guidata da Edward Whymper era composta di sette scalatori e saliva lungo la cresta Hörnli in Svizzera. La cordata italiana, era formata da Jean Antoine Carrel e da Jean Baptiste Bich, entrambi di Valtournache, saliva lungo la cresta del Leone, sul versante italiano. La cordata britannica raggiunse per prima la vetta il 14 luglio, ma nella discesa quattro scalatori perirono precipitando sulle rocce. Tre giorni dopo la cordata italiana conquistò a sua volta la vetta, aprendo una via ben più difficile. Le polemiche che seguirono alla morte degli scalatori britannici oscurarono l’impresa italiana.

In quello stesso luogo e nello stesso tempo si scontrarono due mondi e due culture. Da una parte il mondo evoluto britannico, animato dalla visione colonialista, che lo spingeva alla conquista, dall’altra il mondo contadino italiano, che strappava alla montagna terre inospitali per trarne il pane quotidiano, sperando sempre nella clemenza del tempo e che vedeva quel cucuzzolo di roccia come “la terra dei camosci e dei pazzi scalatori”.

Ancora oggi le due vie sono quelle seguite per raggiungere la vetta.

La cuspide del Cervino presenta diverse creste e picchi.

Un picco si chiama Muzio. Questo nome ha un’assonanza con il cognome di Paola. Lei lo sente quasi suo. Infatti, ricorda che suo nonno paterno, che ha lavorato all’ufficio anagrafe del comune di Milano ed era appassionato di genealogia, le aveva raccontato l’origine del cognome. Un lontano avo di origine bergamasca aveva avuto tre figli maschi. L’impiegato dell’ufficio dell’anagrafe del comune, di cui Paola non sa il nome, forse per una certa difficoltà con la scrittura italiana, li aveva registrati con tre cognomi diversi: Muzio, Mussio, Musso.

Lungo la via principale del paese per onorare la grande montagna sono esposti dei cartelloni che illustrano la vita dei più grandi scalatori della sua vetta.  Carrel è considerato il più grande alpinista della sua epoca. Visse facendo l’alpinista e la guida, morì eroicamente a sessantun anni dopo aver portato in salvo un cliente, con una discesa nella bufera. Giunto in salvo si sedette ed emise l’ultimo respiro.  Tra i numerosi cartelloni, uno ricorda Mike Bongiorno.

Il famoso presentatore televisivo, appassionato di montagna, era di casa a Cervinia e conosceva bene la sua montagna avendola scalata. Nel 1976 registrando lo spot di una famosa grappa, rischiò di morire sulla vetta.

Infatti, improvvisamente sul monte si abbatté una bufera. L’elicottero che doveva riportarlo giù non poteva riprenderlo. Il presentatore rimase due ore in balia del vento e della pioggia battente. Per non soccombere si legò alla croce. Quando finalmente potette agganciarsi al cavo, calato dall’elicottero, disse che mentre era issato, fluttuando nel vuoto, si sentì un angelo.

Accanto all’ufficio del turismo c’è il primo rifugio del Cervino. E’ intitolato a Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, che lo fece costruire nel 1893.

E’ una minuscola baita di legno di larice canadese, le cui pareti e tetto sono a doppio strato, separato da un’intercapedine per migliorare l’isolamento dal freddo e dalle intemperie. E’ formata da un unico locale, dotato di stufa, delle cuccette, un tavolino e poche sedie.

Sono quasi le ore 10.00. Il paese si sta animando. Un altoparlante richiama l’attenzione dei passanti. E’ in corso una prova della Coppa europea di discesa in mountain bike. I cento partecipanti sono partiti da poco sotto Plateau Rosa e raggiungeranno in circa venti minuti il traguardo, che è nel centro del paese. Da lontano li vediamo scendere rapidamente facendo anche manovre acrobatiche. Il teleobiettivo serve anche a questo.

In un bar beviamo il caffè più caro della vacanza e ci avviamo al camper.

Ci attende un lungo viaggio. Infatti, prima di continuare il giro alpino, torniamo a Milano per visitare l’anziana mamma di Giuseppe.

Ripreso il camper, raggiungiamo Macugnaga per onorare la seconda cima alpina: il Monte Rosa.

L’area camper del paese durante l’inverno è la pista di pattinaggio. Si trova in fondo al centro abitato nella frazione di Pecetto, dove parte la seggiovia per il Belvedere. Anche qui abbiamo di fronte la grande montagna e, intorno, il silenzio della notte.

 

3 agosto, lunedì

Macugnaga è il comune della valle Anzasca che sta ai piedi del Monte Rosa. Esso è formato da tre frazioni: Borca, Staffa e Pecetto. Percorrendo la strada da Pecetto a Staffa, la frazione principale, osserviamo che Macugnaga è tra i paesi più belli delle Alpi, che noi abbiamo visitato. Il suo appellativo di “perla del Monte Rosa” risponde a verità. Il paese è formato da antiche case e chiesette che, anche se ristrutturate, hanno conservato la tradizionale architettura walser. Le case hanno basamenti in pietra e strutture di legno di larice.

Il popolo walser è di origine germanica. Appartiene al ceppo degli Alemanni. Queste genti nell’ottavo secolo migrarono nel cantone del Vallese, in Svizzera, da qui l’origine del nome walser. Durante il XII e XIII secolo si stabilirono in numerose zone dell’arco alpino vivendo di un’economia di sussistenza.

In estate si dedicavano alla pastorizia, in inverno costruivano gli attrezzi, filavano la lana, conciavano il cuoio.

A Staffa ci rechiamo al cimitero, dove nel 1978 è stata scoperta una lapide in ricordo degli scrittori di montagna. Tra i nomi figura anche Giovanni Mussio, il papà di Paola. Egli, sepolto nel Cimitero Maggiore di Milano, è forse più presente qui, vegliato da un tiglio del XII secolo e protetto da un’antica chiesetta.

Egli qui vive il suo paradiso, davanti all’incomparabile montagna, nella contemplazione del creato. Il Monte Rosa, con la sua parete orientale, larga tre chilometri e alta duemila e cinquecento metri, gli ricorda il paesaggio himalayano, da lui conosciuto durante i lunghi anni di prigionia e poi studiato, ammirato e amato.

Nel pomeriggio con la seggiovia saliamo al Belvedere e poi con un brevissimo cammino raggiungiamo la morena laterale del ghiacciaio Signal. Siamo ai piedi dell’arco glaciale del Monte Rosa, che si estende dalla Punta Gnifetti alla Punta Dufour, sommità di questo massiccio. L’imponenza della montagna fa capire quanto sia stata ardua la sua conquista, che è avvenuta, il 17 luglio 1931 grazie a due francesi Lucien Devies e Jacques Lagarde. La “via francese” così è chiamato il percorso, sale vicino alla nervatura centrale delle tre che articolano la grande parete. Esse sono separate da canaloni ghiacciati e ricoperti di neve, le cui striature verticali sono segni evidenti di valanghe rotolate a valle. Osserviamo questo bel panorama e ricordiamo la gita che abbiamo fatto anni fa. Allora, raggiunto il Belvedere, avevamo continuato il cammino fino al rifugio Zaniboni e poi proseguito fino al lago effimero e avevamo assistito alla caduta di una valanga.

 


Alpi Lepontine

 

4 agosto, martedì

La mattina la dedichiamo al camper e alle molteplici attività casalinghe. A mezzogiorno partiamo. Ripercorriamo a ritroso la lunga e stretta valle Anzasca. Oggi con minore difficoltà, perché incrociamo meno mezzi. Raggiunto il fondovalle, svoltiamo a sinistra e ci immettiamo nella statale della Val d’Ossola, percorsa dal fiume Toce. Per un lungo tratto è una superstrada. Presso un distributore pranziamo. Fa caldo in valle, un piatto di prosciutto e melone è leggero e tonificante. Dopo la sosta la statale torna a essere una strada normale. Ora il Toce è più vicino, scorre sotto di noi; lungo la sua sponda destra vediamo alcuni cartelli segnaletici di aereosorveglianza del  metanodotto che trasporta il gas d’importazione dal Nord - Europa.

Questo tubo sotterraneo risveglia i ricordi di Giuseppe. Ecco Masera con la sua centrale di compressione, dove Giuseppe è stato per seguire dei lavori. Mentre guida, mi racconta degli aneddoti simpatici e ridicoli del capo centrale di quarant’anni fa.

Transitiamo attraverso la frontiera italo-svizzera. Iniziamo a salire verso il Passo del Sempione che ci fa entrare nelle Alpi Lepontine. La strada è incassata in una forra umida, poi in alto il paesaggio ci ricorda le Alpi scandinave. A 2005 metri inizia la discesa verso Briga. A Briga un cartello indica che la strada è sbarrata. Speriamo che la chiusura sia oltre la nostra deviazione. Non è così. Torniamo indietro e aggiriamo l’ostacolo per un’altra via. Ora dobbiamo affrontare un altro valico, il Furka Pass. Risaliamo la valle del Rodano. Finalmente la Svizzera è quella che conosciamo. Attraversiamo villaggi di case di legno antiche e nuove, raggruppate intorno alle loro chiese con i campanili a cipolla. A Münster c’è un piccolo aeroporto turistico. Capitano Roberto, prendi nota!

Ai piedi del Furka Pass facciamo una breve sosta per fotografare la salita che ci attende. La strada è ripida ma agevole. I tornanti sono molti. Poco sotto il passo sostiamo al Belvedere. Anche il ghiacciaio del Gottardo si è ritirato. Dove una volta c’era il suo bacino di raccolta, c’è un opaco e verdognolo lago, sulla cui superficie galleggia un piccolo iceberg.

Il lago è chiuso verso monte dalla nuova morena frontale, a valle da quella che una volta era la soglia glaciale e ai lati dalle morene laterali di una volta. Il Rodano con grandi salti si è tagliato il letto sul liscio granito. Questo importante fiume nasce già con tanta acqua.

A quota 2436 m, raggiungiamo il Furka Pass. Siamo dentro le nubi basse, esse lo stanno valicando in senso opposto. Breve sosta. Brrr! Ha fatto bene Giuseppe a indossare il giubbotto felpato!

La discesa verso Andermatt è più impegnativa, sia per la visibilità non ottimale, sia perché la strada è più stretta e la nostra carreggiata è esposta verso valle, dove solo dei piccoli paracarri fungono da protezione.

Arriviamo ad Andermatt. Qui alloggiamo al Camping Gotthard.

 

5 agosto, mercoledì

Ieri sera Paola si è dimenticata di puntare la sveglia. Ci siamo svegliati in anticipo rispetto all’ora prevista, perché alle 7.00 il suono a distesa delle campane è stato un richiamo imperioso. Nel cielo terso spicca bianco l’ultimo quarto di luna. Prima di ripartire andiamo in paese per comprare il pane. Andermatt si trova nel cuore delle Alpi elvetiche, nel cantone di Uri.

Il suo insediamento è piuttosto antico ed è stato favorito dalla sua posizione geografica. E’ sorto in una piana alla confluenza di quattro valli appartenenti a cantoni diversi. Infatti, attraverso il Furka Pass si collega a Briga, attraverso il Passo del Gottardo si giunge ad Airolo, tramite l’Oberalppass si raggiunge Coira e passando per Altdorf si arriva al lago di Lucerna.

Andermatt, pur essendo una rinomata località turistica, specializzata per gli sport invernali, è rimasto un piccolo paese. La sua chiesa, dedicata a san Pietro e a san Paolo, è stata edificata nel XVII secolo. Sorge in mezzo al cimitero. Entrando dà la sensazione di essere molto ampia e alta. In stile barocco, ha un’unica navata con volta a botte divisa in quattro campate. Il colore bianco le dona luminosità e mette in risalto i quadri degli altari e gli affreschi presenti nel centro di ogni campata. Molto bello è l’organo situato sulla balconata sopra il portone centrale.

Tornati al camper, un attimo prima della partenza, arriva una carrozza trainata da cinque cavalli. Sulla sua fiancata ha la scritta Gotthard – Andermatt - Airolo. E’ guidata da due postiglioni, vestiti in modo intonato all’epoca della carrozza. Uno ogni tanto suona il corno. Bello, questo intermezzo di folclore!

Per salire verso l’Oberalppass attraversiamo il paese e svoltiamo a destra. La strada sale con curve e tornanti, affiancata da una ferrovia a cremagliera. Lungo un tratto, un po’ meno tormentato, ci sorpassano uno dopo l’altro i quattro motociclisti spagnoli, che erano arrivati al camping. Due sono donne. Uno cavalca una Kawasaki Ninja di colore arancione. Nessuno gli ha detto che le tartarughe Ninja sono di colore verde?

Poco sotto il passo c’è un piccolo lago artificiale, si direbbe ricco di trote, visto il numero di pescatori presenti sulla sua riva. Superiamo il laghetto e arriviamo al valico dell’Oberalppass a quota 2046 m. La sosta per la fotografia è premiata dal sopraggiungere dei due treni Glacier Express che proprio nella stazione del valico s’incrociano. La discesa è piuttosto lunga. Quando raggiungiamo l’altezza degli erbai, un intenso profumo di erba tagliata e fieno inonda il camper. Ricordi infantili affiorano nelle nostre menti e scendono sulle nostre labbra.

E’ estate, è il tempo dei lavori stradali, in questi cantoni montuosi. Ne incontriamo diversi. Alcuni richiedono solo un rallentamento della velocità di marcia, molti altri sono regolati da un semaforo. I semafori sono sempre rossi, purtroppo per noi! A Tiefencastel riprendiamo a salire. Adesso dobbiamo valicare lo Julier Pass. Ci seguono un camper danese e due automobili, che devono sottostare al nostro ritmo di marcia, che non è lento, ma neppure è quello che terremmo se il nostro mezzo fosse più corto. Il passo è a 2287 metri. Qui sostiamo. Tira un vento forte, di valico. L’idea è di fare qualche fotografia e ripartire subito, ma un imprevisto ci trattiene. Arriva un elicottero, si abbassa e atterra vicino alla strada. In una piazzola ci sono degli operai e delle reti accatastate. Carica gli operai e li porta in alto su una parete rocciosa. Poi ritorna più volte alla piazzola, non atterra, ma cala una fune munita di un gancio. Poco alla volta porta là in alto le reti. Probabilmente lassù gli operai stanno costruendo le paravalanghe. Non siamo i soli, a seguire le imprese dell’elicotterista. Col naso per aria e i binocoli agli occhi tanti anziani tedeschi, scesi da un pullman, guardano con quale destrezza l’elicotterista piazza le reti sui quei ripidi costoni.

Nella discesa attraversiamo paesi piuttosto anonimi. La visione dall’alto dei laghi di Silvapiana è davvero bella. Sulle acque azzurre si muovono tantissimi katesurf, surf trainati da vele colorate, simili a quelle dei parapendii. Le vele con i loro movimenti disegnano un caleidoscopico avvicendamento di colori. Proseguiamo verso Saint Moritz, la cittadina da ricchi, dove “nevica firmato”(Mauro Corona). La definiamo la Montecarlo della montagna. A Pontresina ci fermiamo al Camping Morteratsch. E’ molto esteso e parecchio pieno, però un posto lo troviamo. Sistemato il camper, facciamo una passeggiatina lungo l’argine del fiume Flaz, affluente dell’Inn. In fondo alla valle svetta il Pizzo Palù, che appartiene al massiccio del Bernina.

 


Alpi Retiche

 

6 agosto, giovedì

In questo bel campeggio, immerso nel bosco, abbiamo dormito un sonno profondo e ci svegliamo che sono quasi le nove. Apriamo gli scuri, un grazioso scoiattolo scappa e si nasconde tra le foglie che sono intorno alle radici di un larice. Partiamo e prendiamo la direzione per il Passo Bernina. Subito “la fortuna” ci assiste! Dopo un centinaio di metri il semaforo lampeggiante ci avverte che il passaggio a livello sta chiudendo le sbarre. Poco dopo transita il trenino rosso della Ferrovia retica del Diavolezza. Ripartiamo e adesso siamo noi che volutamente ci fermiamo. C’è da fotografare il Pizzo Bernina. Un’altra sosta la facciamo all’Ospizio, che guarda su due bei laghetti. Questa mattina uno è verde e uno è blu. Ci fermiamo anche al passo. Siamo a 2230 metri. Però com’è cambiato il paesaggio! Anni fa, quando avevamo preso il trenino, qui in alto esso costeggiava i ghiacciai, che con le loro lingue si tuffavano nei laghetti. Oggi i ghiacciai sono molto in alto, macchie bianche, che incappucciano e incorniciano le cime.

La valle di Poschiavo inizia con ripidi tornanti. Stiamo procedendo in contro corrente, la guida richiede attenzione. Al bivio per Livigno svoltiamo a sinistra, oltrepassiamo la dogana svizzera, saliamo fino al Passo della Forcola, dove c’è la frontiera. Entriamo in Italia. A Livigno cerchiamo un campeggio per i prossimi giorni. Domanda e offerta s’incontrano al Camping Mansueto. Ha un unico posto disponibile fino al giorno dieci. Perfetto! Noi abbiamo previsto un altro spostamento proprio quel giorno.

La nostra ultima volta a Livigno risale a trent’anni fa. Com’è cambiata la località da allora. Il suo sviluppo edilizio è stato sorprendente ed è ancora in espansione. Passeggiamo lungo la sua via principale, in parte pedonale. E’ affollata di turisti. Sembra di essere in un outlet. Qui gli affari li fanno i negozianti. Ci sono ancora vecchie case di legno ben tenute, ornate di fiori. Esse danno un tocco di classe all’insediamento.

Livigno da sempre ha avuto uno sviluppo lineare lungo l’altopiano percorso dal fiume Spöl. Peccato non aver portato le biciclette, avremmo potuto scorrazzare sulle sue pianeggianti piste ciclabili, che si snodano per chilometri. La nostra passeggiata prosegue fino alla chiesa di san Rocco, poi torniamo in campeggio, che sta esattamente dalla parte opposta del paese. Abbiamo fatto una camminata di tre ore, senza neppure toccare gli estremi del centro abitato.

 

7 agosto, venerdì

Un’altra giornata di sole illumina e scalda questa incredibile vacanza montana. La sfruttiamo facendo una gita. Dal campeggio passa una delle tante strade ciclopedonali. La seguiamo per tre chilometri nella direzione nord. E’ pianeggiante e costeggia il lago artificiale che raccoglie le acque dello Spöl. Un lariceto ombreggia il percorso fino al Ristoro Alpisella. Da qui partono diversi itinerari, che portano in alto. Noi scegliamo di salire al Passo Alpisella, distante cinque chilometri. Il percorso è una carrareccia di terra battuta indicato anche per le mountain bike. Inizia con qualche ripido tornante, che porta a mezza costa sul versante destro della profonda valle del torrente Alpisella. Dopo qualche passo, sopraggiungono dei provetti ciclisti, che con gamba potente e grandi polmoni ci superano. Il tracciato prosegue su un falso piano per un paio di chilometri, dentro una pineta che ci avvolge con il suo dolciastro profumo di resina. In fondo alla valle un ponte di legno ci fa passare sul versante sinistro. Qui il tratturo inizia a salire in modo continuo e ripido. Cambia la vegetazione. Ora le conifere sono larici. Il bosco è più umido. Muschi, erbe, fiori, crescono intorno alle radici delle fustaie e tra le rocce affioranti. Il nostro passo non è veloce, ma è regolare. Camminiamo senza fermarci. Ogni tanto qualche ciclista ci supera. Alcuni sono affaticati, ma con piccoli rapporti proseguono, due si arrendono e iniziano a spingere a mano la bicicletta, a due piace “vincere facile”. Infatti, stanno salendo con la bicicletta elettrica. Completato un tornante, troviamo seduti esausti su una panchina una famiglia, che ci aveva raggiunto e superato prima del ponte. Sentiamo il papà dire al nostro passaggio: ”Così dovevamo camminare, con passo più lento.”

Un ultimo tornante e finalmente iniziamo a sentire l’aria del passo, ma la meta è ancora lontana. La salita continua. Ora siamo sopra il limite della vegetazione arborea. I rododendri sono macchie scure sui prati e i pini mughi crescono sui ghiaioni consolidandoli. Poco prima del passo il laghetto Alpisella ci regala l’agognata pausa fotografica. La sua forma circolare, la sua posizione in una conca ai piedi di ripidi pendii, sono i segni della sua origine glaciale.

Poco sopra il lago c’è il passo. Abbiamo raggiunto la quota di 2281 metri. Sembra di essere sulle Dolomiti. Creste rocciose sottili e acuminate troneggiano sui ghiaioni e sui pascoli. Queste montagne sono molto corrugate. Le loro pareti presentano anfratti e grotte. Il sole le illumina, mettendo in risalto il colore rossastro del ferro arrugginito in contrapposizione con le striature grigie e nere del calcare. Proseguendo oltre il passo si arriva fino alle sorgenti dell’Adda e si può scendere fino a Bormio.

Torniamo indietro. Ci aspettano altri otto chilometri. Al Ristoro Alpisella pranziamo con un panino con la bresaola e apprendiamo delle conoscenze sul lago e sulla valle. Le rosse montagne fino all’inizio del 1500 erano sfruttate per l’estrazione del ferro, che era lavorato nelle fucine artigiane presenti dove adesso c’è il lago. Negli anni ’30 l’AEM, oggi A2A, aveva ipotizzato la costruzione nella valle di un bacino artificiale. Sono stati stipulati accordi con la Svizzera, perché lo Spöl scende in territorio elvetico. La costruzione della diga è iniziata nel 1962 e il lago è stato inaugurato il 26 agosto 1971.

I valligiani che hanno perso le case e i terreni agricoli sono stati risarciti.

Torniamo in campeggio, mentre la campana della parrocchiale sta suonando l’ora della Passione. Ci riposiamo. Verso sera il cielo si oscura. Nere nubi si addensano e inizia a piovere, mentre da lontano arriva l’eco del temporale.

 

8 agosto, sabato

A Livigno i ritmi del paese sono scanditi dallo scampanellio delle campane. Alle ore 8.00 suona la sveglia, a mezzogiorno l’Angelus, alle ore 20.30 l’Ave Maria della sera. Dopo colazione ci incamminiamo sulla pedonale in direzione sud. Il percorso è pianeggiante, costeggia lo Spöl in contro corrente. La ciclopedonale è lontana dalla strada veicolare e divisa in due corsie, una destinata ai pedoni e una per i ciclisti. C’è già movimento. Tante persone approfittano del sole caldo e della temperatura gradevole per fare un po’ di moto. Oltre alla gente comune su questo “piccolo Tibet”, così è chiamato l’altopiano di Livigno, degli atleti, di diverse nazioni si stanno allenando. Per le magliette che indossano, riconosciamo degli slovacchi, dei lettoni e altri ancora. Sono marciatori e maratoneti, che stanno ricercando la forma migliore per affrontare nelle prossime settimane i campionati mondiali di atletica, che si svolgeranno a Pechino.

Senza forzare camminiamo a passo spedito. Superata la chiesa di san Rocco, Giuseppe indica un pianoro a mezza costa, chiuso a destra e a sinistra da due fitte abetaie. Su quello spiazzo, oggi occupato da tre baite, quando era ragazzo, aveva campeggiato con l’oratorio. Altri tempi. Allora non c’erano particolari regole igieniche da rispettare. L’acqua per cucinare, lavarsi, e governare le stoviglie era presa dal torrentello che saltellava verso lo Spöl. “Tanto con qualche salto, l’acqua si purifica”, si diceva. Forse non è vero, però mai nessuno si è ammalato di dissenteria o altro.

Proseguiamo, alla nostra sinistra c’è un agglomerato di case di nuova costruzione. In un’ora giungiamo quasi alla fine del paese. Dove la pedonale inizia a salire verso il Passo della Forcola, decidiamo di invertire la direzione della nostra passeggiata. Prima di rientrare in campeggio facciamo un po’ di spesa e a mezzogiorno siamo al camper.

La famiglia slovena della piazzola vicina alla nostra è partita. Sul cartello di prenotazione c’è scritto che arriverà un italiano. Il nuovo ospite puntualmente arriva nell’ora di pranzo insieme al previsto temporale. Alle ore 12.30 in pochi minuti il cielo si oscura, un forte vento accumula fosche nubi. Poi il vento cessa. Il grigiore gravido di acqua si abbassa. Inizia a piovere. Si alza nuovamente il vento. La pioggia s’intensifica. Chiudiamo i finestrini e gli oblò. Un tuono scuote la quiete del campeggio. Venti minuti di grande turbolenza, poi il cielo si apre. Il sole torna a fare il suo dovere, dona linfa vitale alla vegetazione e asciuga tutto.

Come lucertole usciamo dalla nostra tana e ci crogioliamo sotto i suoi caldi raggi.

A metà pomeriggio, andiamo in centro. E’ l’ora dello “struscio”. Una grande quantità di persone affolla il paese.

I quattro passi previsti diventano un’altra ora di cammino. Intanto arrivano altre nubi, questa volta scendono dalla Forcola. Là in fondo si aggrovigliano giocandosi in tutte le sfumature del grigio, però via via che si spostano in direzione del lago, si sfilacciano, diventano sottili, si schiariscono, si aprono, lasciando intravedere ancora pezzi d’azzurro.

 

9 agosto, domenica

Santifichiamo il giorno del Signore partecipando alla messa delle ore 10.30, nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Nascente. Nella stessa celebrazione si svolge il funerale di un anziano del paese, quasi novantenne, “la cui vita, trascorsa tra alti e bassi, come quella del profeta Elia, ha trovato forza e alimento nel pane eucaristico”, così ha detto di lui il parroco durante l’omelia. C’è il sole, ma il meteo aveva previsto pioggia per tutto il giorno. Così noi abbiamo programmato un pranzetto a base di polenta.

.... e polenta sia! Dopo il succulento pranzetto, un po’ di riposo è necessario e lecito. Siamo in vacanza!

Intanto le previsioni iniziano a realizzarsi. Il cielo si rannuvola. Qualche goccia di pioggia si fa sentire. Paola ritira il bucato. A metà pomeriggio, i reflui di vento trattengono la pioggia. Ne approfittiamo per fare una passeggiata di un’ora lungo la pedonale. Poi ci ritiriamo sul camper e la lettura ci accompagna fino a sera inoltrata.

 

10 agosto, lunedì

Svegliarsi alla mattina con 12°C mentre il resto dell’Italia cuoce, è possibile, se si è a Livigno, dove il sole sorge da dietro le montagne alle ore 8.00.

I camper vicini al nostro hanno la stufa accesa, ma noi abituati anche d’inverno a dormire nella stanza non riscaldata, non ne sentiamo la necessità. Il disagio lo avvertiamo uscendo dalle calde coltri. Velocemente ci prepariamo e sistemiamo per la partenza.

Il signor Mansueto e suo figlio Daniele ci salutano e ci augurano buon viaggio. Si congedano da noi con un cordiale arrivederci.

Ci siamo proprio trovati bene in questo campeggio. Esso occuperà un buon posto nella nostra graduatoria.

Raggiunta la strada principale, svoltiamo a destra, in direzione nord, verso il lago e prima di lasciare il centro abitato facciamo il pieno di gasolio, pagando il combustile solo 0,85€/l. E’ una vera cuccagna!

La strada che porta in Svizzera costeggia il lago lungo la sua riva sinistra.

E’ tutta riparata da una panoramica galleria paravalanghe. Il lago, ancora in ombra, ha un intenso colore blu. La riva opposta, superata la valle Alpisella, è selvaggia. I versanti delle montagne s’inabissano nell’invaso con ripide pareti parzialmente ricoperte di vegetazione e con canaloni che scaricano ingenti quantità di detriti. Raggiungiamo la diga. Qui c’è la frontiera Italia-Svizzera. Per proseguire bisogna superare il Passo del Gallo, che non ha una strada carrozzabile che lo risale, ma una galleria che gli passa sotto. Il transito è a pagamento. Metà degli euro risparmiati con il pieno li spendiamo nel pedaggio. La galleria è un’angusta e tetra spelonca. Si transita a circolazione alterna. Fuoriusciti dal tunnel saliamo verso il Passo Fuorn. La strada ampia sale dolcemente lungo la valle, che è ricoperta di pinete sofferenti. A 2149 metri di quota valichiamo il passo. Lasciamo il bacino idrografico dell’Inn ed entriamo in quello dell’Adige. Posteggiamo e ne approfittiamo per fare la pausa caffè e qualche fotografia. La discesa nella valle Müstair è più ripida. Siamo nel cantone dei Grigioni, dove si parla prevalentemente la lingua romancia.

Lo comprendiamo sia dalla toponomastica, sia dalle indicazioni stradali, ma anche dalla caratteristica architettura. Le case sono in muratura, intonacate con gli spigoli e i contorni dei portoni e delle finestre affrescati con bei decori.

A Müstair c’è un monastero. Ci fermiamo per visitarlo. L’abbazia di epoca carolingia è stata fondata nell’anno 780 dal vescovo di Coira. La chiesa principale non la vediamo, perché è visitabile solo con la guida e in gruppi formati da almeno sei persone. Visitiamo invece il chiostro di Saint Johann, che conserva affreschi romanici del XII secolo. Poi giriamo per il paese. Passando accanto alla latteria, il gradevole profumo del liquido bianco in lavorazione, ci dona il senso della genuinità. Come sono diverse le qualità organolettiche del latte di montagna rispetto a quello che consumiamo a Milano.

Ripartiamo e poco dopo troviamo la frontiera che ci introduce nuovamente in Italia. Il finanziere ci chiede i documenti e se proveniamo da Livigno. Avuta la nostra risposta affermativa, ci fa accomodare per un controllo. Apriamo il gavone del camper. Il finanziere dà uno sguardo e ci lascia ripartire. Infatti, non abbiamo niente da dichiarare, perché il nostro shopping a Livigno si è limitato al pieno di gasolio.

La valle Müstair s’immette nella Val Venosta. Siamo nella zona delle mele. I dolci frutti stanno maturando e profumano l’aria. A Glorenza decidiamo di fermarci al campeggio comunale. L’accesso è davvero difficoltoso. Bisogna percorrere per un tratto la stradicciola che funge anche da ciclabile. Essa è stretta tra le mura della città e l’argine del fiume Adige. Il camper la occupa completamente. Quando incrociamo dei pedoni, questi per non farsi schiacciare salgono sul muretto che funge da argine.

Il campeggio si trova alla confluenza del Rambach con l’Adige. L’Adige giunge all’incontro ancora limpido e lì s’intorbidisce perché il suo affluente gli dona in abbondanza acqua di ghiacciaio.

Nel pomeriggio visitiamo Glorenza, la più piccola città dell’Alto Adige. Di origine medioevale è completamente circondata da una cinta muraria. Vi si accede attraverso delle porte turrite. Giriamo per le sue stradicciole racchiuse tra case edificate in epoche diverse.  Caratteristica è la via Dei Portici. Essa ospita annualmente il mercato di san Bartolomeo. Nell’anno 1291, il conte Mainardo II dl Tirolo donò alla città, il diritto di mercato di san Bartolomeo, che da quell’anno inizia il 24 agosto e continua per dieci giorni. Questo mercato, che in origine commerciava il salgemma proveniente dall’Austria, il vino della Valtellina, i capi di bestiame e i prodotti agricoli locali, voleva anticipare e contrapporsi al mercato di Müstair istituito cinquantadue anni prima per volere dei vescovi di Coira. Esso si svolgeva il giorno 8 settembre in occasione della Natività di Maria. Oggi il mercato di san Bartolomeo oltre alla vendita dei prodotti agricoli locali smercia articoli artigianali.

Vicino alle mura c’è una gora che porta l’acqua dell’Adige al vecchio mulino. La chiesa parrocchiale di san Pancrazio conserva della sua costruzione originaria il campanile, ma il cupolino a cipolla è stato sovrapposto in un’epoca successiva.

Torniamo verso il campeggio e proseguiamo lungo la ciclopedonale fino a Laudes, che dista da Glorenza un paio di chilometri. Laudes è una frazione di Malles. Ha un’antica chiesa del XII secolo, che conserva un bel polittico, così dice la guida turistica. Purtroppo questa chiesa è chiusa. La chiesa parrocchiale è moderna, è stata costruita all’inizio del secolo scorso e non è interessante dal punto di vista artistico. Laudes ha una spiccata vocazione agricola. Le sue vie odorano di fieno e di stallatico. Sui prati i contadini con moderni mezzi stanno rivoltando il taglio d’erba agostano. Altri agricoltori sono occupati nei filari, dove esili meli sono carichi di pomi dorati. Se l’intraprendenza e l’alacrità di questa popolazione montana fosse di esempio per chi abita in altre regioni, sicuramente la nostra Italia avrebbe meno problemi.

 

 

11 agosto, martedì

L’uscita dal camping di Glorenza non è difficile, perché si deve seguire un’altra via. Infatti, uscendo si gira a sinistra e poi subito ancora a sinistra. Si transita sul ponte di legno sotto il quale scorre l’Adige e si giunge sulla statale. La direzione che prendiamo è verso il Passo di Resia. A Burgusio facciamo una piccola deviazione per visitare l’abbazia Marienberg, che illumina con il suo candore il verde versante della valle. E’ l’abbazia benedettina posta più in alto in Europa. In origine c’era una cappella romanica. I conti Taraps nel XIII secolo la trasformarono in un’abbazia. Questa subì delle modifiche secondo lo stile barocco verso la metà del XVII secolo. Bello è il suo portale ad arco tutto affrescato.

La cripta che conserva degli affreschi romanici non la possiamo visitare, essendo chiusa per restauri.

Entrare in un’abbazia è un po’ uscire dal tempo. Ci si perde nell’osservazione della sua struttura architettonica e nell’ammirazione delle sue opere d’arte. Nella chiesa, dove risplendono i suoi bianchi stucchi, sostiamo in preghiera, avvolti nel silenzio che dona pace interiore. “Ora et Labora” è il fondamento della regola benedettina. Ancora oggi i monaci la praticano. L’orto, il frutteto, il vigneto sono lavorati con ordine e cura. Vediamo un monaco all’opera raccogliere i fagiolini.

Ripartiamo e dal basso cogliamo un’altra inquadratura di questo bel paesino, che purtroppo non ha un’adeguata area di parcheggio.

La strada che sale verso il Passo Resia è ampia. Questa mattina è molto trafficata in entrambi i sensi di marcia. Il Passo Resia è caratterizzato dal suo grande lago artificiale dal quale spunta il famoso campanile del vecchio paese di Curon Venosta, sacrificato per le esigenze energetiche. Dal passo nascono due grandi fiumi: l’Adige, secondo in Italia per lunghezza, che sfocia nel mare Adriatico e l’Inn, che scorre nel Tirolo ed è affluente del Danubio. Superiamo lo spartiacque, entriamo nella zona delle Alpi Retiche e scendiamo lungo la valle dell’Inn. Il fiume è ricco d’acqua ed è molto impetuoso. Negli anni ha scavato il suo letto incidendo le rocce della valle. Ora scorre in una profonda forra. Inizialmente la strada lo segue dall’alto con una ripida discesa a sua volta intagliata nella roccia. Più a valle lo costeggia e lui si offre agli amanti del rafting come pista ideale per un percorso adrenalinico. A Ims abbandoniamo la statale che conduce al Brennero e saliamo lungo l’Ötztal, la valle nel cui ghiacciaio, nel settembre del 1991, è riaffiorato il corpo ben conservato di un uomo di 5300 anni fa. Ci incuriosisce conoscere qualcosa di più sulla storia di quest’uomo anonimo e ora famoso in tutto il mondo. Ricaviamo alcune informazioni da diversi siti internet. L’uomo di Similaun, Ötzi, è vissuto nell’età del rame.  E’ stato ricomposto nel museo archeologico di Bolzano in condizioni climatiche che impediscono il processo di degradazione del suo corpo. Dopo il ritrovamento è stato a lungo studiato da diversi punti di vista. Sappiamo che è morto a causa di un colpo alla testa e che la sua età era compresa tra i quaranta e i cinquant’anni. Indossava delle vesti di pelle. Aveva con sé un arco di legno di tasso, una faretra con due frecce, un coltello di selce, un’ascia di rame e altri oggetti contenuti in una sacca. Aveva mangiato da poco del grano e carne di stambecco. Il suo corpo era segnato anche da una ferita non mortale alla spalla. Ötzi era affetto da diverse patologie quali l’artrosi e una parassitosi intestinale. Esaminando il suo DNA si è scoperto che il suo ceppo genetico, era caratterizzato da una rara mutazione genetica del cromosoma y, variazione presente in alcuni soggetti della valle austriaca confinante con la zona del ritrovamento. Nel suo sangue è stata trovata un’elevata quantità di arsenico forse dovuta all’attività di estrazione del rame.

Poco prima di Sölden ci fermiamo al Camping Winhle. E’ a conduzione familiare. Esso ci ricorda i campeggi francesi. Su un grande prato è stato tracciato un anello sul quale si affacciano tende, caravan e camper. Oggi qui è presente l’Europa. C’è un equipaggio della repubblica Ceca, uno della Lettonia, alcune tende di persone provenienti dalla Polonia, dalla Germania, dall’Olanda, ovviamente dall’Austria e noi.

Sono solo le ore 15.00, ma un pomeriggio di completo riposo lo meritiamo dopo tanto girovagare e prima del grande rientro.

 

12 agosto, mercoledì

Iniziamo l’ultima giornata di vera vacanza ancora sotto l’egida del sole. Ritorniamo a ritroso lungo la valle dell’Ache. Anche questo corso d’acqua, tributario dell’Inn si è tagliato una profonda forra. Giunti nuovamente a Ims seguiamo l’Inn fino a Innsbruck. Stiamo percorrendo la strada statale, ma a una rotonda sbagliamo l’uscita e ci ritroviamo su una strada secondaria che ci fa attraversare i paesini. Benefico errore. Infatti, se prima il panorama era piacevole, ora ci offre qualcosa di più. I piccoli borghi agricoli sono incantevoli. Hanno case con le finestre ornate di fiori e giardini curati. All’ingresso dei paesi è sempre presente una piccola cappella o un’edicola votiva, a testimonianza di una religiosità popolare conservata nei secoli.

A Faurling c’è una piccola area di parcheggio. Ottima occasione per la pausa caffè. Abbiamo di fronte il bel municipio con la facciata affrescata. Esso è circondato da cascine. Poi torniamo sulla statale e arriviamo a Innsbruck.

Attraversiamo lentamente la città, capoluogo del Tirolo, perché un grave incidente stradale lungo il percorso prestabilito ci obbliga a una deviazione inoltre alcuni lavori stradali presenti sulla nuova direttrice rallentano ulteriormente la nostra marcia.

Le indicazioni per il Passo del Brennero sono però chiare e anche il navigatore si è prontamente sintonizzato sul nuovo percorso. La salita verso il Brennero inizia nella zona dei trampolini del salto con gli sci, costruiti per l’olimpiade del 1964. Questi trampolini utilizzati anche nell’olimpiade del 1976 sono l’emblema della città. Pensiamo che per gli atleti sia stato spettacolare ed emozionante lanciarsi nel vuoto, avendo sotto di sé la città.

La valle che sale verso il passo è una tipica valle alpina, ombreggiata da scure abetaie. E’ percorsa dal torrente Brennero dalle acque trasparenti.

La delusione provata al Colle di Cadibona, primo valico della vacanza, ci attende e ci riprende all’ultimo valico. Sul passo più basso delle Alpi, solo 1370 metri di altitudine, c’è un piccolo villaggio commerciale, dominato da un outlet. Nel grande parcheggio, destinato al mercato settimanale, pranziamo e salutiamo la vacanza con la consueta fotografia di commiato.

Anche se non particolarmente elevato, questo passo funge da spartiacque e da frontiera. Ora siamo in Italia. La valle che ci porta in pianura è quella dell’Isarco, che a sud di Bolzano riversa la sua ricchezza idrica nell’Adige, che rimane il fiume principale solo grazie alla maggiore lunghezza.

All’inizio del pomeriggio ci fermiamo a Bressanone, presso il Löwen Camping. Poi con una camminata di un chilometro lungo la ciclopedonale che costeggia l’Isarco, raggiungiamo il centro della cittadina. Lungo la strada, un verso stridulo richiama la nostra attenzione. Un airone cinerino vola rasente l’acqua e si ferma in mezzo al fiume, su un sasso affiorante. Immobile, guarda a 360° l’acqua, poi si alza nuovamente in volo e va a posarsi un po’ più a valle sulla sponda opposta a quella che stiamo percorrendo.

Bressanone è situata in una conca a poco più di 550 metri di altitudine. Per la sua posizione molto soleggiata accoglie tra le sue produzioni agricole delle piante mediterranee, che trovano qui il loro limite massimo di altitudine per crescere.

La città è stata fondata nel 901. Alcuni lavori di ristrutturazione attuati nel suo duomo, hanno messo in luce tracce d’insediamenti preesistenti. Il suo centro è un’accogliente isola pedonale. La chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo, che sorge accanto al duomo, è chiusa perché in essa sono in corso degli scavi archeologici. Il suo campanile è però il simbolo della città. Esso è chiamato Torre Bianca, perché un tempo era anche la torre civica. Eretto tra il XIV e il XVI secolo, con i suoi 72 metri di altezza permetteva un’ampia visione sul territorio. Su di esso, giorno e notte, una guardia vigilava. Aveva il compito di dare l’allarme se avvistava degli incendi.

Il duomo si affaccia alla piazza principale. Alla stessa piazza, ma su un altro lato c’è il municipio.

Il duomo è la cattedrale della diocesi di Bressanone-Bolzano, che è stata istituita nel 1964. Anche se oggi il vescovo risiede a Bolzano, la cattedrale è rimasta qui. Il primo duomo risale al X secolo, quello attuale è stato costruito nel 1745. E’ in stile barocco. In esso sono conservate le reliquie dei santi qui onorati: san Cassiano, san Ingenuino, san Abboino. Le statue dei tre santi sono poste sulla facciata, sulla quale è anche scritto: “Santi vescovi ricordatevi del vostro gregge”. Accanto al duomo, sul lato opposto rispetto alla chiesa parrocchiale c’è il chiostro. E’ uno dei più belli che abbiamo visitato. E’ contornato da due fila di colonnine. In stile gotico, conserva quasi completamente sulle volte e sulle pareti gli affreschi che lo decorano. Alcuni rappresentano i momenti della vita della Madonna, altri quelli della vita di Gesù, altri ancora degli episodi biblici.

Rientrati in campeggio ceniamo con un menù altoatesino: würstel con crauti e strudel di mele.